M a quale razza. Ma quale religione. Ma quale nazionalità. Ma quale stato sociale. Ma quale sesso. Ma quale tifo calcistico. Ma quale appartenenza politica. La discriminazione vera, quella strisciante, quella che nessuno denuncia, quella che spranga la nostra vita se non con dei muri almeno con delle strette paratie, è quella dell'età. Molti di noi vogliono avere a che fare soltanto con persone della loro generazione. Il ventenne cerca il ventenne. Il trentenne il trentenne. Il settantenne il settantenne, anche se questo accade meno di frequente.
Dagli altri evidentemente non ci sentiamo compresi, forse nemmeno considerati. Siamo un Paese fatto a strati che non dialogano, la nostra identità conta meno della data di nascita. Un strada tutta italiana all'hakikomori, parola giapponese che racconta di quel fenomeno partito dall'Estremo Oriente culla di tutte le mode giovanili occidentali. Si ha paura dell'altro, qualsiasi altro; di non essere all'altezza di quanto il mondo si attende da noi. E si getta la spugna, chiudendosi in se stessi, nella propria stanza. Una raccolta differenziata esistenziale, che rottama centinaia di migliaia di giovani anime liofilizzate in un nickname.
Chiamiamolo hakikomori selettivo. Ci chiudiamo al mondo che non ha la nostra età, i nostri gusti, i nostri abiti, i nostri tic verbali, che non ha i nostri tempi di comprensione della tecnologia, con cui non condividiamo i nostri ricordi. Perché siamo tutti reduci di qualcosa, e solo tra reduci della stessa cosa ci troviamo accolti.
Il Censis le chiama tribù generazionali. E in una ricerca condotta con la Fondazione Hpnr (Human Potential Network Research) e con la Fondazione Oic (Opera Immacolata Concezione) fa uno screenshot del fenomeno con numeri preoccupanti. Sono circa 8 milioni gli italiani (soprattutto tra i millennials) che rifiutano contatti con persone di altre fasce d'età. Ponendo in essere comportamenti irrazionali, scomodi, incoerenti, sovente ai limiti dell'autolesionismo. Scena uno: un quarantenne va da un medico per una visita. Scopre che il solito dottore coetaneo non c'è e il sostituto è un arzillo collega con i capelli d'argento. Il paziente si guarda in giro imbarazzato, poi guarda il telefono fingendo di leggere un messaggio urgente, si scusa con la segretaria dello studio e se ne va. Tornerà un altro giorno, oppure andrà in un altro studio. E pazienza per quel certificato così urgente. Scena due: un diciottenne vuole comprare quel paio di scarpe che desidera tanto, la mamma gli ha dato 70 euro, lui va nel negozio, controlla in vetrina che quel modello sia ancora in vendita, poi sbircia l'interno del negozio e vede solo due commesse dell'età della stessa madre. Il ragazzo esita, quelle sneakers le desidera tanto ma forse le vendono anche in quel centro commerciale dove non deve chiedere a una persona molto più grande di lui. Scena tre: una trentenne è al suo primo giorno di lavoro in un nuovo ufficio. I suoi colleghi hanno tutti una ventina di anni in più. Le chiedono di andare con loro a prendere un caffè alla macchinetta e poi di pranzare insieme; lei finge di non amare l'espresso e di non aver fame. Nei giorni successivi imparerà a rinunciare all'espresso e prenderà l'abitudine di portarsi la schiscetta da casa pur di non dover dar confidenza a quella gente là e nel giro di qualche settimana avrà raggiunto il suo obiettivo: sarà del tutto isolata.
La prima scena secondo il Censis, è familiare a 2,3 milioni di italiani. La seconda è stata interpretata da 3,8 milioni. La terza addirittura da 7,5.
Siamo «un Paese fatto di tribù generazionali in buona parte non comunicanti». I riti sono differenti, le parole arrivano da vocabolari posti su scaffali lontani, gli sguardi non si incontrano mai. Povera Italia, e il suo non essere un Paese per giovani e vecchi insieme.
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