Allora non è vero che sono diventati tutti vegetariani. Oggi a pranzo la Griglia di Varrone brulica di clienti e quindi di carnivori e non c'è un tavolo libero nonostante il gran numero di coperti. Chi aveva risposto al telefono era stato, se non proprio minaccioso, quanto meno caporalesco: «Che siano le 13,15 precise, altrimenti diamo via il tavolo».
Io e l'Incontentabile, il mio alter ego esigente e insofferente, siano stati lì lì per lasciar perdere, tenetevelo pure il vostro tavolo, a Milano i ristoranti non mancano e di fame non moriremo. Però ci siamo ricordati le parole di Allan Bay secondo cui da Varrone si trova la carne migliore della città e abbiamo risposto signorsì per poi presentarci al caporale di giornata alle 13,15 in punto. A dire il vero l'Incontentabile aveva in precedenza manifestato un'altra perplessità, di tipo geografico. La Griglia di Varrone è una micro-catena composta da due locali, il primo dei quali si trova a Lucca, e quindi riteneva da provare l'indirizzo toscano anziché quello milanese, per via della sua fissazione col concetto di origine che gli deriva da letture come quella di Max Beerbohm: «Il fiore supremo dovrebbe essere visto per la prima volta nel rigoglio del suo suolo natio». Gli ho spiegato che la rigogliosa città di Lucca purtroppo non è di strada e che aspettando l'occasione di andarci si corre il rischio vengano messi fuorilegge midolli e animelle, gli ingredienti più peccaminosi della Griglia. A quel punto l'Incontentabile, gran frattaglista, è addivenuto a più miti consigli e quindi eccoci qui, nel vocìo e nel fitto di una pausa pranzo però di lusso (l'ambiente è di design, tovaglie queste sconosciute, e il conto pure, con una bottiglia discreta si sfiorano i cinquanta). Si pranza sotto lo sguardo di Paolo Parisi, allevatore ormai leggendario, presente non di persona ma in forma di manifesto. Alla Griglia di Varrone ci sono le sue uova preziose, deposte da galline livornesi alimentate (anche) a latte di capra, e subito ne approfittiamo. Sono cotte a 61 gradi siccome questa è la temperatura per avere un tuorlo cremoso ma non sodo: pochi gradi in meno e l'uovo sarebbe crudo, pochi gradi in più e sarebbe duro. Purtroppo a casa, con fornello e pentolino, i 61 gradi sono impossibili da azzeccare, quindi chi vuole sperimentare l'uovo migliore cotto nella maniera migliore o si procura le poco reperibili uova di Parisi e un roner, aggeggio costoso e complicato da usare, o viene qui dove con 8 euri può gustarselo condito in 4 modi: 1) con parmigiano e aceto balsamico, un classico; 2) con bottarga di Cabras e 3) con capperi-origano-colatura di alici di Pantelleria, e qui l'Incontentabile storce il naso perché a Milano di Mediterraneo non vuole sentir parlare, lui auspica un condimento di missoltini; 4) alla carbonara ossia con guanciale-pepe-pecorino, il vizio assoluto. Servito in una scodellina anche questa di design, neo-primitivista direi. Sfrenatamente neo-primitivo il piatto più coraggioso del ristorante, il midollo di bue, un osso spettacolare spaccato a metà nel senso della lunghezza e dentro ecco la pappa di proteine da estrarre con cucchiaino apposito. Sembra di tornare a Neanderthal (dove però non disponevano di cucchiaini così bellini) eppure oggi cibarsi di midollo significa affrontare la più contemporanea delle prove, la sfida ontologica evocata dal filosofo Rémi Brague: «C'è un dubbio dell'uomo su se stesso. L'uomo non sa più troppo bene se si distingue radicalmente dall'animale. E ancora meno se vale davvero di più». Mangiare midollo di bue, meglio se accompagnato e in qualche modo civilizzato da queste fette di pane dorato e caldo, significa ribadirsi al vertice della Creazione: è un piatto per uomini orgogliosi.
Il vino? L'Incontentabile, sempre per quella fissa dell'origine, dalla lunga carta estrae la bottiglia più prossima e quindi una bottiglia di Valtellina. Stabia Dossi Retici è un uvaggio nebbiolo+rossola+altre autoctone meno pretenzioso e più buono di molti vini valtellinesi di nostra conoscenza. Si prosegue con le carni grigliate, la tagliata di bufalo e l'agnello aragonese «alimentato con semi di girasole». Deve fargli bene, all'agnello, tutto questo girasole, visto che consistenza e gusto sono straordinari. Si conclude con un gelato di latte di fassona che sa di burro, cioè proprio di latte (un latte che non sa di burro non è latte, è acqua bianca).
La sala finalmente si svuota, l'Incontentabile ha dimenticato l'indirizzo sgradito (non soltanto non siamo a Lucca, in un certo senso non siamo nemmeno a Milano essendo via Tocqueville situata nella non Milano dei grattacieli in stile asiatico), ha dimenticato il caporale della prenotazione, ha dimenticato la folla, il rumore, i tavolini stretti, e adesso legge la carta mormorandone le voci come stesse sognando: «Guanciale di Nero dei Nebrodi di Agostino... prosciutto cotto di cinta senese di Paolo Parisi... animella di vitella... battuta al coltello di pura razza piemontese...».
Siccome sta sognando cita anche pregiate carni esotiche sulle quali normalmente solleverebbe obiezioni patriottiche: «Black Angus Australia alimentato a mais... pluma di maiale iberico Joselito... filetto di puro Kobe...».Mi piange il cuore ma è tardi, lo devo trascinare fuori.
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