Figuratevi se non solidarizziamo con le varie associazioni di categoria che difendono Giovanni Tizian, Nello Trocchia e Stefano Vergine, indagati a Perugia per accesso abusivo e rivelazione di segreto. Figuratevi se non ci associamo alla segretaria della Federazione della Stampa dopo l'inchiesta sui cronisti del quotidiano Domani: «A pubblicare le notizie i giornalisti non commettono mai un reato I giornalisti hanno come unico scopo della loro professione cercare e verificare i fatti e pubblicare notizie che siano veritiere». Ma ci associamo, da colleghi, soprattutto perché sappiamo che non è vero. È velleitario o troppo generico, infatti, quanto ha detto la segretaria dell'Fnsi Alessandra Costante: pubblicare notizie, per dei giornalisti, può essere reato eccome. E questo da un lato rischia di dimostrarlo proprio ciò che sta succedendo: i tre citati rischiano fino a cinque anni di carcere; ma i giornalisti, più in generale, rischiano di commettere un reato anche se pubblicano segreti di Stato, o atti segretati, o se partecipano a un concorso in rivelazione di segreto che non li veda soltanto nel ruolo di recettori. Non è che per procurarsi una notizia (pur vera) un cronista possa armarsi di bazooka e fare qualsiasi cosa: e gli studi legali dei quotidiani potrebbero fornire esempi dettagliati, ma non è questo il punto.
Il punto detto con tono semiserio - è chiedersi che cosa rimanga del concetto di «segreto» e della sacralità di non essere «spiati» in uno Stato liberale. E qui ci soccorre una memoria da anziani. Quando il mondo in teoria era peggiore, nel 1997, alcuni di noi descrissero nel dettaglio due incubi da futuro orwelliano: l'anagrafe tributaria e il redditometro. Ora sono realtà, ci siamo arrivati. È anche vero che, quando il mondo era peggiore, sembrava molto migliore: si prendeva l'aereo senza doversi denudare ai controlli, in treno nessuno telefonava, nessuno ti intercettava, non eravamo tutti «tracciabili» come bistecche attraverso cellulari, conversazioni, telecamere, webcam, email, movimenti fisici o contabili, telepass, nonché quella navigazione internet da cui possono dedurre i tuoi gusti e orientamenti. Potevi rinunciare a carte di credito e bancomat, non fare assegni o bonifici bancari, girare con mazzettoni di contanti come uno spacciatore, e tua nonna poteva tenere i soldi sotto il materasso senza finire a Regina Coeli. Che poi: il mondo era davvero migliore? Resta memorabile un vecchio articolo di Massimo Fini: «Io il mio denaro ho diritto di metterlo dove mi garba, di ficcarmelo anche nel c... se così mi piace». E noi sperammo che Fini non ne avesse troppo, di denaro. Ma forse e comunque no, il mondo non era migliore: è solo che eravamo più giovani.
Ai tempi c'erano già spionaggi e dossieraggi come quelli scoperchiati dalla procura di Perugia, ma paradossalmente non esisteva un concetto di «privacy» o addirittura una «Authority della privacy» in un'epoca, questa, in cui la riservatezza è diventata una chimera. In Italia, per spesa e quantità, abbiamo intercettazioni ambientali e telefoniche come non le aveva neanche la Germania dell'Est. Poi ci sono gli scontrini con luogo e orario, il fisco ci spia sui social e fa indagini, poi ci sono i conti degli hotel o peggio motel, i ticket autostradali, gli sms e le email, anche i «like» che, in concreto, permettono di profilarci secondo gusti e preferenze, dunque le chat, Skype, Facebook, WhatsApp, tutte le geolocalizzazioni, la bolletta con tutte le telefonate, il resoconto del telepass con le tratte autostradali, i percorsi del navigatore, il resoconto degli acquisti con la carta di credito, telecamere e webcam dappertutto, addirittura agenzie investigative da tre soldi e microspie acquistabili su internet, mentre gli studenti non possono più marinare o bigiare la scuola (c'è il registro elettronico) e il controllo tra coniugi comincia a essere regolamentato anche nei contratti prematrimoniali.
Nel 2016 ci fu una querelle tra Fbi e Apple perché la prima chiedeva alla seconda di sbloccare l'Iphone di un terrorista: Apple si appellava alla privacy e al timore di creare un precedente nella lotta per salvaguardia dei dati personali. La soluzione raggelò un po' tutti: una società di cybersicurezza israeliana riuscì sbloccare il cellulare per conto dell'Fbi, il che significò anzitutto che la cosa era possibile (la stessa Apple negava di esserne in grado) e significò che uno Stato può immettersi nelle tue cose al pari di hackers e criminali.
La procura di Perugia e qualche giornalista pseudo indipendente, insomma, stanno facendo solo la parte dei dilettanti, dell'Fbi o degli Assange de noantri. Non c'è da infierire. «L'uomo moderno ha rinunciato a essere felice in cambio di un po' di sicurezza» disse un certo Sigmund Freud nel 1929. E non aveva neanche l'Iphone.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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