Il panettone è la Roma e il pandoro è la Lazio». Post comparso pochi giorni fa su facebook firmato Alessandro Pipero, patròn di un ristorante con una stella Michelin della capitale («Pipero al Rex»), la cui passione per la squadra giallorossa è grande almeno quanto quella per i suoi clienti. Non una provocazione ma una constatazione: quello tra i due dolci lievitati del Natale è un vero e proprio derby, accanito quasi quanto quello tra le due squadre della capitale (e chi come noi arriva da lì lo sa bene). Si chierano in armi due vere Weltanschauung: opulenza contro semplicità, con contro senza, mainstream contro alternatività. La partita, sia chiaro, non è alla pari: il panettone milanese ha una storia che confina con la leggenda, è famoso ormai in tutto il mondo (in Gran Bretagna quest’anno va a ruba, in Francia riempie gli scaffali delle gastronomie da molti anni) e sulla sua interpretazione si sfidano i migliori pasticcieri d’Italia in concorsi evento come il «Re Panettone» che si celebra a Milano tutti gli anni prima di Natale. Il pandoro, che arriva da Verona (fu inventato da Domenico Melegatti nel 1894 ma molti vogliono far risalire la sua esistenza fino a Plinio il Vecchio, uno che più o meno avrebbe sdoganato quasi tutto a parte i Suv e la spillatrice) è un dolce analogo per forma, pezzatura e diffusione ma non ha la stessa dignità gourmet.
La disfida è seria. Le due compagini si sfidano sul blog «Pandoristi vs Panettonisti», che parte dalla teoria fantasiosa che un tempo esistesse un unico dolce natalizio, l’Orettone, e che nel 1947 si sarebbe consumato un insanabile scisma tra coloro che lo volevano «nudo» e gli altri che lo amavano farciti di canditi e uvetta (con i riti canditisti, uvettisti, mandorlisti, glassisti e cremisti). Certo, uno scherzo; che però nasconde una grande verità: dietro i pandoristi e i panettonisti si agitano due mondi in armi. I primi non sono animati da alcun dubbio: il panettone non è soltanto l’unico dolce natalizio in agenda, è spesso l’unico in assoluto. Naturalmente i seguaci di questa fede (padre, figlio e lievito madre) aborrono coloro che lo comprano in offerta al supermercato come fossero apostati. Per loro il panettone deve essere di pasticceria, costare non meno di 20 euro per il «pezzo» da un chilo, deve preferibilmente essere difficile da trovare (per questo loro lo ordinano tutti gli anni già il 25 novembre) e deve essere assolutamente tradizionale. Chi lo vuole senza canditi è guardato con diffidenza, chi lo pretende addirittura senza uvetta sospettato di intelligenza con il nemico («allora prendi il pandoro, no?». Detto con scherno).
Chi lo vuole con creme al pistacchio, al limoncello, al marron glacé semplicemente sta prendendo un granchio colossale, come coloro che pensano che sulla pizza possa finire l’ananas o che si possa consumare impunemente un cappuccino dopo le 12 senza essere di Düsseldorf. L’unica variazione ammessa è la granella alle mandorle, quella ad esempio imposta dal più celebre pasticciere italiano, Iginio Massari da Brescia, nel suo panettone talmente cult che le cronache del Natale 2016 ne segnalano addirittura delle copie tarocche smerciate per le fantasiose strade di Napoli («magari sa di pizza», scherzano da quelle parti). E lui, Massari, che ne è pure contento come fosse promosso a griffe. I pandoristi sono più tristi (perdonate la rima). Sono i vegani del Natale, quelli che sbianchettano ogni stravizio, quelli che less is more (ma Mies van den Rohe non aveva assaggiato il panettone salernitano di Alfonso Pepe, oppure la focaccia di Tabiano di Carlo Gatti o quello milanese di Pavé o quello «agricolo» di Pietro Macellaro).
Sono i salutisti, i bambini, gli ipocondriaci, sovente le donne, quelli che vanno al «super», vedono che le stesse aziende producono i due dolci e pensano quindi che siano sullo stesso livello. Come coloro che pensano davvero che la Roma sia come la Lazio...- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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