Quelle "battaglie di civiltà" comodo alibi per la censura

Quelle "battaglie di civiltà" comodo alibi per la censura

Da un po' di tempo un nuovo spauracchio censorio si aggira per le cronache politiche, nei salotti e nei tg, nei dibattiti, negli slogan di partito, nel linguaggio dei vari Renzi, Boldrini, Bonino o Fazio: la «battaglia di civiltà». Espressione perfetta, dal suono solenne, che ha il gran pregio di mettere la parola fine a qualsiasi discussione scomoda, e la funzione di schiacciare in culla fin dal primo accenno qualsiasi vagito di spirito critico. Che cos'è una battaglia di civiltà? È qualcosa che viene spacciata per giusta e intoccabile, tale da non ammettere diritto di replica. Infatti - va da sé - soltanto una persona incivile può opporsi a una battaglia di civiltà; e perbacco! Noi viviamo in un Paese di antica civiltà che non può consentire di esprimersi in pubblico - e se possibile neanche in privato - a chi se ne dimostra privo. Basta porre la fatidica premessa, e il gioco è fatto: il ricorso all'eutanasia è una «battaglia di civiltà», lo ius soli è anche questo una «battaglia di civiltà», la fecondazione eterologa è una «battaglia di civiltà», il matrimonio omosessuale è ancora più civile di quello eterosessuale; l'ambigua legge sulla tortura (che delega all'arbitrio del giudice la presenza di un «danno pischico») è il trionfo della civiltà, e naturalmente tutti i reati d'opinione (che riguardino il fascismo, i gay, le religioni eccetera) saranno pure antiliberali ma, che diamine, sono «battaglie di civiltà». E c'è infine la madre di tutte le «battaglie di civiltà»: quella che apre agli immigrati, indiscriminatamente, i confini dello Stato.

Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe pensare: questa è solo la nuova maschera dietro alla quale

si nasconde il pensiero politicamente corretto. Sarà, ma non è precisamente così che l'ideologia progressista e giacobina mira a stabilire sulla società quella egemonia totalitaria esaltata a suo tempo da Antonio Gramsci?

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