Cos'hanno in comune l'italiano Matteo Renzi e il norvegese Jens Stoltenberg? Entrambi sono stati leader in patria del principale partito di sinistra, entrambi sono stati capi del governo, entrambi sono stati sloggiati da una sconfitta elettorale e hanno dovuto ritagliarsi un nuovo ruolo. E qui entra in ballo il fattore cruciale che accomuna i due ex leader progressisti, e che oggi va tenuto conto nel disegnare il futuro di Renzi: negli anni passati al potere hanno maturato una solida fedeltà atlantica, dimostrando la loro affidabilità alla Casa Bianca. Stesso atteggiamento, per esempio, di fronte alle rendition, i sequestri di presunti terroristi operati dalla Cia in Europa: coperti dal segreto di Stato da Renzi in Italia, autorizzati in Norvegia da un accordo tra il governo moderato e l'opposizione laburista. E quando va al potere, Stoltenberg si guarda bene dal riaprire il dossier.
Il laburista norvegese, appena viene sconfitto nel 2013 alle elezioni dalla conservatrice Erna Solberg, coglie subito i frutti della sua ortodossia atlantica: viene nominato, primo norvegese della storia, alla segreteria generale della Nato, il posto chiave dell'alleanza, un posto di visibilità planetaria la cui nomina passa per l'okay di tutti i ventotto (allora) Paesi membri, ma soprattutto per l'appoggio degli Usa, che del Patto detengono una sorta di golden share.
Il mandato, in teoria, dura quattro anni, Stoltenberg è già stato prorogato, ma l'anno prossimo dovrà lasciare. Ed è alla scadenza del 2022 che si riferiva Maria Elena Boschi quando a metà dicembre ha lanciato a sorpresa il vertice della Nato come destinazione quasi naturale del leader di Italia Viva. «Ne avrebbe tutte le caratteristiche», ha detto.
Proprio tutte, in realtà, no. Certamente Renzi da presidente del Consiglio ha dimostrato a Washington di essere un alleato fedele non solo sul caso Abu Omar, ma anche quando, stando alle accuse dell'ex collaboratore di Trump George Papadopoulos, ha consentito alla Cia, sotto la presidenza Obama, di organizzare a Roma il trappolone chiamato Russiagate. Adesso che alla Casa Bianca è tornato un democratico, quella cambiale è pronta per venire messa all'incasso. Anche perché Renzi avrebbe dalla sua un dato forte: nonostante l'Italia sia uno dei maggiori contributori della Nato non ha mai espresso (tranne tre brevissime reggenze) un segretario generale. Stavolta, può dire a buon diritto l'Italia, tocca a noi. Cioè a Renzi.
Funzionali a questo progetto risulterebbero diversi aspetti dell'attivismo renziano: dalle mosse targate Carrai sul fronte della cybersicurezza, fino allo sbarco - ventilato da più parti - dell'ex premier al ministero della Difesa in caso di rimpasto o di nuovo governo. Un anno a via XX Settembre, in attesa dell'addio di Stoltenberg, consentirebbe a Renzi di rafforzare competenze e legami con l'apparato militare che sono oggi il suo punto più debole.
E la battaglia per costringere Giuseppe Conte a mollare il controllo dei servizi segreti potrebbe servire anche ad evitare che dal mondo dell'intelligence arrivino siluri in grado di far naufragare lo sbarco alla Nato del senatore fiorentino.
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