Il riscatto di una generazione perduta

Prima il Covid, oggi la guerra in Ucraina. Qual è l'atteggiamento dei giovani di fronte alle sfide del nostro tempo?

Il riscatto di una generazione perduta

Ogni generazione ha avuto a che fare con fatti epocali. Quelli, per capirci, che entrano nei libri di scuola. Quella di mio padre ha vissuto gli Anni di piombo. "Come facevate a fare tutto quello che dovevate fare? Andare a scuola, lavorare, con il rischio di prendervi una revolverata?", chiesi una volta a mio papà. "Lo facevamo perché dovevamo farlo". Un atteggiamento, un modo di reagire di fronte alle avversità della vita, che forse la mia generazione non conosce.

A me e ai miei coetanei, soprattutto italiani, è toccato in sorte il Covid-19. Il terrorismo islamista, che a partire dal 2001 ha toccato prima gli Stati Uniti d'America e poi l'Europa, ci ha toccati solamente di striscio. Si aveva paura di volare e poco di più. Anche la stagione degli attentati dell'Isis, grazie a Dio (e pure ai nostri servizi segreti), ha evitato il nostro Paese. Il virus, come lo si chiama ora, è stata la nostra prima vera sfida. Ma non l'abbiamo gestita benissimo, per usare un eufemismo. Soprattutto all'inizio, tutti noi ci siamo chiusi in casa. Il Covid - patogeno misterioso e forse, dice qualcuno, nato dentro un laboratorio - ci faceva paura. A tutti. E mente chi dice che non lo temeva, almeno tra fine febbraio e inizio marzo. E lo si capisce dal fatto che, quando c'erano le ambulanze che strillavano da una parte all'altra della città, solamente pochi si sono presentati come volontari (non certo io, imboscato, che aspettavo l'arrivo di mia figlia, la mia priorità).

Ricordo che in quei giorni mi tornava alla memoria un racconto che avevo sentito alla radio. A parlare era un anziano, un uomo con la voce rotta e commossa. Dal tono delle parole che pronunciava era vecchio come il cucco. Raccontava che conservava ancora in casa una bottiglia di liquore che suo padre aveva messo da parte per celebrare la fine della Prima guerra mondiale. Poi però arrivò la Spagnola e se lo portò via. Quella bottiglia non fu mai aperta e il figlio, ogni volta che la guardava, vedeva in quel liquido che si scuriva nel tempo l'ombra del padre scomparso. Ma la conservò. Nella mia testa, incline all'esagerazione, immaginavo qualcosa di simile anche per me. L'arrivo della figlia, la bottiglia buona da stappare. E il non poterlo fare. Tutto, alla fine, è andato bene. Almeno nel mio caso e non come quando lo si urlava dal balcone, mentre le auto delle pompe funebri correvano verso gli ospedali. Ma ho un rammarico. Non ho fatto quello che avrei dovuto fare. Davanti al primo vero momento importante che la mia generazione stava vivendo ho scelto, come gran parte di tutti noi, la comodità: smartworking, Netflix, ginnastica e giardinaggio. Un classico di quei mesi (la pizza fatta in casa no perché la farina era sparita, ricordate?).

Oggi c'è una guerra alle porte d'Europa. Anzi: in Europa. E provo invidia per quei ragazzi in prima linea. Tutti. Indipendentemente dalla bandiera che portano sulla propria divisa. Sia chiaro: non parlo di chi si è arruolato perché mosso dall'odio verso il nemico o dalla sete di vendetta. Parlo del fantaccino che avrebbe voluto fare altro e che, invece, si trova in trincea, ieri al freddo oggi al caldo, per difendere uno strapuntino di terra. Perché una cosa è la politica, con la sua dose di cinismo e menefreghismo, un'altra sono i ragazzi (e pure le ragazze) che fanno il proprio dovere. E che riscattano la mia generazione, persa tra tv e una vita da riempire. Di cosa, però, non si sa.

Oggi, il ministro degli Esteri finlandese, Pekka Haavisto, ha parlato della possibilità di una

guerra in Europa. In uno scenario simile, noi cosa faremmo? Ci chiuderemmo ancora in casa oppure faremmo il nostro dovere? "Quello che deve essere fatto?". Una risposta non ce l'ho. O forse sì. E mi rattrista.

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