Sciopero e scioperati: il legame c'è e si vede

Pare che la Cgil intenda organizzare uno "sciopero generale". Lo farà. Vive di queste trovate.

Sciopero e scioperati: il legame c'è e si vede

Pare che la Cgil intenda organizzare uno «sciopero generale». Lo farà. Vive di queste trovate. La circostanza spinge, di norma, allo sbadiglio, cui segue l'irritazione. Né l'uno né l'altra credo facciano bene alla salute. Vorrei risparmiarli a voi e a me. Fermare l'inesorabile è impossibile. Propongo la riduzione del danno. Invece di scrivere quello che state pensando che io pensi sull'argomento, cercando a mia volta di connettermi con quel che pensate voi, ho deciso di rompere il cerchio alla testa che è venuto subito a tutti quanti. E come? In funzione di aspirina, prendere aria andando alle sorgenti linguistiche e storiche di questa forma di lotta. I risultati della mia modesta esplorazione intorno al significato della parola e ai primi moti che si sono diffusi in Italia al grido di «Viva lo sciopero!» sono molto istruttivi.

Mi sono mosso partendo da una considerazione sull'oggi. La parola stessa «sciopero» infastidisce, figuriamoci la sua pratica. Crea disagi a tutti tranne a quelli che lo fanno, i quali, in attesa di aumenti, evitano il buco salariale con un po' di straordinari o qualche arzigogolo contrattuale, impedendo così che la paga ne soffra, essendo essa già magra di suo, senza bisogno di vedersela piallata dagli uzzoli politici dei capataz. I quali sfruttano gli scioperi generali contro il governo non come fonte di arricchimento dei proletari, ma per misurare la forza politica e a determinare la futura carriera di chi li indice. Se, infatti, quando un metalmeccanico o un muratore va in pensione, deve consumare le residue energie portando gratis i nipotini a cavalluccio, i vari segretari della Cgil che lo hanno convocato in piazza mettendogli in mano tamburi, e in bocca fischietti con a tracolla il sacchetto della colazione al sacco, finiscono preferibilmente a Strasburgo come eurodeputati a 30mila euro (...)

(...) al mese (come Sergio Cofferati) o, in calando, alla Camera o al Senato per 15mila euro (vedi il compianto Guglielmo Epifani e Susanna Camusso), oltre alla pensione. Tutto questo ha rovinato il poco residuo epico che il ricordo degli scioperi ottocenteschi o del primo Novecento e i quadri di Pellizza da Volpedo sul «Quarto stato» portano con sé.

Ho recuperato sui due stupendi volumi de «I Meridiani Mondadori» dedicati al «Giornalismo Italiano» (1860-1939) gli articoli dedicati ai primi scioperi in Sicilia e nelle campagne emiliane e poi nell'Alto Milanese, quindi le cronache del primo sciopero generale politico indetto contro il governo Giolitti nel 1904.

Anche i giornali che esprimevano valori cari alla borghesia, pur chiamando «orda pericolosa» i cortei, hanno sprazzi di prosa che inducono alla commozione. Scrive Augusto Guido Bianchi sul Corriere della Sera, come inviato a Corbetta (Milano), il 19 maggio 1889. Si tratta di uno sciopero contadino. Esordisce Bianchi. «La sommossa si fa generale». Filippo Turati chiede «pane e lavoro!». Bianchi riferisce: «Potevano essere le 8 e la sera era oscurissima in causa del temporale. Per le vie strette non si vedeva che una massa confusa di gente da cui partivano grida incomposte di Mort ai sciori!, Voerum fa el quarantott!, Stassira dev cur el sang di sciori. I sassi avevano stritolato le lampade».

Non c'è sul Corriere del tempo la traduzione dal milanese, lo parlavano tutti a Milano, allora la faccio io: «Morte agli sciuri, i ricchi! Vogliamo fare un Quarantotto! Stasera deve scorrere il sangue dei ricchi!». Continua Bianchi: «A un certo punto gli assalitori non ebbero neppur più paura delle baionette e tentarono di disarmare i carabinieri... Addosso... addosso erano le grida che partivano dalle due parti. (...) I colpi di 20 o di 30 moschetti partirono; ad essi risposero grida di dolore. Si ricaricò, si sparò. Un ragazzo diciottenne che stava in prima fila, stramazzò rantolando, con la schiuma dell'agonia sulle labbra».

A questo punto la folla si apre silenziosa, arriva il prete... «Fu una scena spaventosa... Il giovanotto a nome Lovati Enrico, d'anni 18, contadino, venne trasportato da alcuni sotto il porticato, dove poco dopo spirava».

In Sicilia si innalzano le proteste dei minatori delle zolfatare. La richiesta è che si alzi l'età minima dei carusi per poter lavorare sottoterra. Avevano meno di dieci anni, la lotta è perché fosse spostata a quattordici. I padroni erano proprio cattivi, lo sciopero era per «Pane e vita», ma dopo aver letto Filippo Turati su Critica Sociale (16 gennaio 1894) d'impeto recupero una novella di Luigi Pirandello Ciàula scopre la luna. Che non sciupo raccontandovela, non c'entra con proteste e sommosse ma fa scoprire la condizione umana. Guai a perdersela. Per cui ringrazio l'antica e sanguinosa insurrezione delle zolfatare di avermela fatta ritrovare tra vecchi libri, ricordando la sofferenza di tanti povericristi, e viene da imprecare contro chi ha banalizzato lo sciopero, trasformandolo in un rito senza fede, un'ostia gettata ai cani come aperitivo preelettorale.

Da qui la scarsa popolarità di questa faccenda anche tra chi li fa, gli scioperi. Gli oratori che li proclamano sprofondano nella retorica della vita e della morte, ma poi c'è lo spritz.

L'etimologia di «sciopero» è semplice e pulita, non ha nulla di ideologico o negativo. Il latino aiuta: viene da ex-operare, levarsi dal lavoro. Fin qui, insomma, il termine non ha colore, non prende posizione, è neutrale. Il sentire popolare sul tema invece non è per niente imparziale, i derivati linguistici di sciopero lo rivelano. La scioperataggine non pare indicare una virtù, è piuttosto un vizio che lo sciopero instilla in chi lo pratica, una specie di dipendenza da una droga della fannullaggine dove i sindacalisti e gli ideologi della mutua fungerebbero da pusher. Scioperataggine, infatti, dice il vocabolario, è «la deplorevole persistenza in una vita inutile». Del resto, dare a uno dello «scioperato» è l'equivalente di insultarlo come lazzarone. Letteralmente vorrebbe dire che il tizio non ha lavoro, così almeno era inteso da Boccaccio, perché allora gli scioperi non erano all'ordine del giorno, poi è diventato sinonimo di fannullone, perdigiorno, bighellone. Lo usano in senso spregiativo, secondo la Treccani, persino due scrittori comunisti onoratissimi per esser tali, cioè Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini. Essi dovrebbero inchinarsi dinanzi al supremo grimaldello per aprire le porte alla rivoluzione proletaria. Invece basta un attimo e il glorioso scioperante diventa anche per i suoi cantori un vituperoso scioperato.

Si narra che il primo sciopero della storia abbia interessato certi lavoranti incaricati di costruire le piramidi per i faraoni d'Egitto, i quali chiedevano di non farsi abbrustolire dal sole e dunque essere dotati di opportune creme. In realtà pare essere piuttosto un tentativo di dare natali antichi a una pratica nata nella modernità. Lo si comprende da un confronto linguistico che funziona spesso da macchina della verità. Le lingue neolatine, se la pratica di questa lotta fosse stata instaurata in tempi antichi o nel Medioevo, dovrebbero nominare lo sciopero recuperando la parola dalle medesime radici. Invece niente di tutto questo. In francese si dice grève, che vuol dire ghiaia, ed era il nome di una piazza di Parigi dove il mattino presto si ritrovavano i disoccupati per essere ingaggiati dai caporali. La Place de Grève non era un nome beneaugurante: fu collocata lì la ghigliottina che fece rotolare le prime teste dei condannati a morte a partire dal 1792. In Spagna scioperare si dice hacer huelga, che deriva da holgar. Viene dal latino, ma da tutt'altro latino, e significa «riposare con gusto», «respirare provando piacere».

Insomma allude ad una festa del far niente ma non da soli, un dolce e piacevole abbandonarsi agli ozi anche sessuali. Non per caso huelga è un sostantivo femminile. Al che, parlandone da storico della materia, sconsiglio lo sciopero a tutti.

Vittorio Feltri

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