Uno dei pregiudizi più odiosi in politica è la convinzione grillina e cretina che a destra tutti odino i magistrati, in nome di una lombrosiana affinità antropologica e (im)morale con i delinquenti. In realtà, di brave persone a destra che credono nella giustizia, in quanto potere fondamentale dello Stato, ce ne sono parecchie. E ce ne sarebbero di più se puntualmente la loro fiducia non fosse messa a dura prova.
La decisione del giudice del Tribunale di Catania di disapplicare i decreti immigrazione non è tecnicamente uno scandalo. Ci sarà spazio per i ricorsi e per una parola definitiva che chiarisca se i provvedimenti del governo sono legittimi o scritti male, e se la decisione della giudice Iolanda Apostolico è stata doverosa o ideologica. Tutto questo in un Paese normale, certo.
In Italia, invece, succede che la magistrata «cane sciolto, mai iscritta a correnti», come agiograficamente descritta da Repubblica, sui suoi social da anni porti avanti le battaglie per l'accoglienza con toni da militante. Ha partecipato a petizioni per chiedere la sfiducia dell'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini e per spingere l'Europa ad aprire le porte ai migranti; ha postato immagini di bandiere rosse e definito gli sbarchi «scene di moderna deportazione»; segue - tra gli altri - i profili di centri sociali occupati, Open Arms, No Borders, No Muos, Potere al popolo. Tutto legittimo, la libertà di espressione e di pensiero vale anche per i magistrati. Ma, a questo punto, al fantomatico elettore di destra che si fida della giustizia un legittimo sospetto viene: è normale che un giudice decida su una causa che da anni lo vede pubblicamente esposto?
Riecheggia ancora il frastuono mediatico del caso Vannacci, il generale rimosso dall'incarico per le frasi contenute nel suo libro, giudicate contrarie al decoro dell'Arma. La questione, con lui, non è mai stata la libertà di espressione tout court, ma la libertà di espressione nell'esercizio di un ruolo pubblico. Il quale, volenti o nolenti, comporta obblighi di decoro e continenza. Sul tema, una delle voci più lucide era stata quella di Marco Travaglio, che sul Fatto per primo aveva accostato uniformi e toghe: «Se un giudice pensa peste e corna del suo imputato, non deve dirlo. Se lo dice, deve astenersi in nome dell'imparzialità del processo».
Perfetto. Vannacci ha sostenuto tesi che collidono con l'uguaglianza sancita dalla Costituzione. Era suo diritto farlo, ma non mentre era in servizio. Però, seguendo questa logica, perché una magistrata apertamente favorevole all'immigrazione senza regole ha potuto pronunciarsi sul decreto anti-sbarchi? E perché lo ha potuto fare senza che nessuno alzasse un dito per chiedere un minimo di terzietà?
Esiste un vademecum, redatto dal Consiglio consultivo dei giudici europei del Consiglio d'Europa, per cui i giudici dovrebbero astenersi dal pubblicare sui social interventi e «like» che possano compromettere la fiducia del pubblico nella
loro imparzialità, per non dare l'impressione di mancare di trasparenza su certi temi. Poveri giudici europei, fanno tenerezza. Quasi come un cittadino di destra che vorrebbe ancora disperatamente fidarsi della giustizia.
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