Sul marciapiede di via Nazionale, prima di imboccare l'ingresso di Palazzo Koch, incontri il pupillo di Mario Draghi, Fabio Panetta, in una pausa del colloquio che ieri il presidente del Consiglio incaricato ha avuto proprio con lui, membro del comitato esecutivo della Bce, e con il governatore Ignazio Visco. Il personaggio è trafelato, si vede che è stato sottoposto ad un pressing, ad un'opera di convincimento, a cui continua a rispondere di no. Tant'è che al cronista che gli fa notare che sarebbe un ottimo ministro dell'Economia, Panetta si precipita a dire: «Io ministro? No no no... penso di no. Non voglio entrare al governo. Preferisco restare dove sono». Eppure il cronista insiste - il suo sarebbe un nome di alto profilo? «No... no... preferisco continuare a ricoprire l'incarico che ho. O comunque non al governo».
Una volta per scoprire in anticipo tutti i segreti di un nuovo gabinetto, dovevi passeggiare nei pressi della Camera, o attorno alle dimore o agli uffici privati del presidente incaricato. Invece, in questa strana vigilia che precede la nascita del governo Draghi, devi farti trovare dalle parti di Bankitalia: molto del futuro governo si deciderà lì.
Eh sì, perché Mario Draghi si fida molto delle persone che sono cresciute in quel Palazzo. Sono quelle con cui si trova più a suo agio. E il suo desiderio sarebbe quello di individuare il ministro dell'Economia, cioè l'uomo che dovrebbe proseguire la sua opera fra un anno semmai dovesse salire al soglio quirinalizio, proprio da quelle parti. Ecco perché si parla di Panetta, che resiste. O dell'ex ragioniere dello Stato, Daniele Franco, che, dopo aver litigato con tre governi, è tornato tra le mura amiche di Palazzo Koch. O, addirittura, ma qui la congettura rasenta la «fantapolitica» per cui va citata solo per garantire la completezza nella cronaca, gira l'ipotesi di un approdo di Ignazio Visco al governo e della nomina proprio di Panetta a governatore. Insomma, un gioco stretto, tutto dentro le mura dell'Istituto di via Nazionale. Ieri Draghi ha trascorso tutta la mattinata lì. Poi, a differenza di Ciampi, che amava pranzare a Palazzo Koch, è tornato nella casa dei Parioli. Magari, non si fidava è una battuta perché il capo chef di Bankitalia è un inglese arrivato direttamente dall'Hotel Plaza, cioè l'albergo di proprietà della compagna di Conte.
Del resto, nella strana vigilia di un governo tutto speciale, si avverte la distanza che c'è tra l'alta tecnocrazia dell'Istituto di via Nazionale e ciò che passa in questa fase il convento della politica. La follia dalle parti del Parlamento ancora impera, anche se forse siamo alle ultime battute prima di una nuova fase. Ieri a Montecitorio molti nel vertice grillino ricordavano le parole con cui Beppe Grillo, appena due giorni fa, aveva tentato di convincere i suoi accoliti che non era il caso di mettere il destino del nascituro governo Draghi nelle mani dei militanti con la famigerata consultazione sulla piattaforma Rousseau: l'Elevato aveva parafrasato la battuta di quel fumetto francese, Asterix, «sono pazzi questi romani», applicandola al movimento, «sono pazzi questi grillini». Poi si era adeguato, mettendo in piedi mille espedienti e riuscendo ad evitare la catastrofe (alla fine i sì sono stati il 59,3%). Ma, a parte ciò, immaginate un Draghi - già governatore di Bankitalia e presidente della Bce, un personaggio che era salito un quarto di secolo fa sul transatlantico Britannia per dissertare sulle grandi privatizzazioni del nostro Paese - che deve aspettare un giorno intero il giudizio di Luca Merico, militante 5stelle che ama farsi ritrarre con le mutande in testa.
Tutto si può dire meno che Draghi non sia un politico, o non abbia pazienza. In questi giorni è stato cortese, aperto, disponibile sui programmi, ma non si è fatto strappare dalla bocca un nome. Berlusconi, nell'incontro con lui alla Camera, ha pure provato a sondarlo. Invano. «Caro presidente gli ha detto il Cav , poi casomai ti inviamo una cartellina con dei suggerimenti, con qualche consiglio sulle persone». E Draghi, senza alzare il ciglio, ma con un sorriso ha risposto: «Davvero grazie, mandate tutto ciò che volete, lo leggerò, ma alla fine sarò io a decidere». È la scuola di Bankitalia. Tant'è che pure Zingaretti, per far presente al presidente incaricato che non sarebbe il caso di far entrare Matteo Salvini nel governo perché metterebbe troppo in imbarazzo il Pd, ha dovuto avvalersi di un messaggero del Quirinale. E forse proprio lo star zitto, con la politica che impazzisce per il suo silenzio, ha risolto a Draghi più di un problema. Ad esempio, Zingaretti aspirava ad un ministero. Non poco. Solo che si è trovato davanti un ostacolo che non gli ha posto davanti neppure il presidente incaricato. Ieri Matteo Salvini ha telefonato a Matteo Renzi e si è sfogato: «Io gli ha confidato al governo ci andrei, pure volentieri. Ma se poi mi dicono che non è proprio il caso, non posso certo accettare che il numero uno del Pd entri e il leader della Lega no. E lo stesso discorso vale pure per Speranza, il leader di Leu è lui, o no?». Anche Renzi gli ha dato ragione, per cui Zingaretti ha deciso di fare un passo indietro. Un po' più complicato sarà risolvere le questioni in casa grillina: due giorni fa c'è stata una litigata memorabile tra Stefano Patuanelli e Pierpaolo Sileri, che vuole soffiargli il ruolo di ministro. Insomma, non parlando a volte i nodi si sciolgono da soli senza che Draghi sia stato costretto a lambiccarsi per trovare soluzioni.
Già, in un modo o nell'altro, la presenza dei politici il premier incaricato la risolverà. Nessuno può dirgli di no. Resta il dilemma dell'Economia, che non è da poco. I politici preferirebbero qualcuno che metta in atto le decisioni del capo del governo senza creare un altro polo di Potere. «Se fossi in lui confida uno dei leader della smisurata maggioranza di governo metterei in quel posto uno come Daniele Franco che, visti i rapporti, metta in pratica le volontà di Draghi senza fiatare. Che si tratti dei grandi enti pubblici, o della Rai. Deve evitare di metterci uno che si monti la testa».
Si tratta di consigli, non di persone che hanno voce in capitolo, ma di spettatori. Ai politici resta, appunto, solo la politica. Così Federico Fornaro, capogruppo di Leu, si rallegra perché dopo il sì grillino, la maggioranza del governo precedente «può diventare l'asse portante del nuovo esecutivo Draghi». Mentre dalla Lombardia arriva anche la benedizione del Senatùr: «Draghi è il messaggio di Umberto Bossi è una risorsa per il Paese e Salvini non deve aver troppa fretta di andare a Palazzo Chigi». A loro la politique d'abord, a Draghi gli oneri e gli onori del governare. E non sarà facile.
A Carlo Sangalli, presidente della Confcommercio, il presidente incaricato ha raccontato il suo impatto con la pandemia, con la sua drammaticità: «Alla vigilia del primo lockdown, quello del marzo scorso, mi ritrovai da solo in un albergo. Ero l'unico cliente a vagare per i saloni e per i corridoi. Un'esperienza allucinante, sembrava il set di The Shining!».
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