Leonardo Sciascia faceva risalire la nascita del «cretino di sinistra» agli anni Sessanta, «mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare». Non aveva previsto però che trent'anni dopo, e avendo intanto celebrato di quel cretino la prevalenza e poi la decadenza, la legge del pendolo sarebbe andata a suonare l'ora della cretinaggine dall'altra sponda politica. Gianfranco Fini (condannato ieri a due anni e otto mesi per la «casa di Montecarlo») aveva tutto per incarnarla: parlava bene senza dire niente, era presuntuoso, era relativamente giovane, era sempre stato cooptato dall'alto, era cresciuto in un partito dove il cesarismo e il gregarismo la facevano da padrone. Era, ha scritto qualcuno, «il migliore dei suoi». E questo fa capire cosa e come fossero gli altri.
Come leader di partito, Fini fu il becchino del suo mondo. Lo fece vincere, ma seppellendolo. La conquista del potere trasformata in potere che dà la conquista, pura e semplice, senza complicazioni di sorta, senza un motivo, un sentimento, un pensiero. Il grado zero della politica, o il degrado, fate voi.
Anni fa, in un'intervista al Fatto Quotidiano, di fronte alla scelta monegasca fra l'essere ritenuto «un coglione» o l'essere considerato «un corrotto», Fini optò per la busta numero uno e da quella scelta contenuta in quella busta ancora oggi non si è più discostato. C'è da credergli sulla parola, non fosse che un politico coglione spesso fa più danni di un politico che si limita a rubare.
Una delle prove provate della dabbenaggine in politica consiste nel ritenersi più furbi del proprio avversario, semplicemente perché lo si misura con il proprio metro, per di più taroccato. All'epoca Fini scambiò se stesso per un professionista e Silvio Berlusconi per un parvenu: nella logica del «delfinato», l'unica che conoscesse e che avesse praticato, l'età e i guai giudiziari avrebbero fatto il resto Il risultato fu che Berlusconi gli mangiò, letteralmente, il partito e l'altro finì (un verbo che sta per un nome) per lasciarsi irretire da una politica bizantina di Palazzo dove il meno esperto aveva alle spalle un quarto di secolo di intrighi. Non c'era partita, insomma.
In politica la stoltezza significa anche provincialismo. Se n'è accorto a sue spese Matteo Renzi, reo di aver scambiato Rignano sull'Arno per la Firenze dei Medici e aver confuso Calandrino con Lorenzo il Magnifico. Nel caso di Fini fu letale: non c'era uso di mondo, ci si ritrovava a fare il ministro degli Esteri senza mai essere andato oltre Anzio, ci si compiaceva di fare il sub immergendosi in acque vietate, ci si beava di salotti e rotocalchi, ci si illudeva sull'amore a cinquant'anni e su questo tema non andiamo oltre per una questione di stile. Tutto questo, paradossalmente, finì (idem come sopra) per fare di lui non tanto un odiatore di sé stesso, quanto del mondo da cui proveniva e in cui si era completamente formato. Si illuse che distruggendolo e disprezzandolo venisse fuori un altro io, un leader diverso. Solo che sotto quella camicia nera buttata nel cestino dei rifiuti c'era il nulla.
La vicenda di Montecarlo rimane esemplare non solo per la «coglionaggine» del leader, ma anche per quella dei suoi supporter e difensori dell'epoca, intellettuali più o meno intelligenti, politici più o meno navigati, pronti a gettare il cuore oltre l'ostacolo, a superare cioè in scempiaggine lo stesso numero uno. Non era vero, era un complotto, una congiura, un'arma politica, la «macchina», si sa, «del fango»... Gente che per anni lo aveva criticato, salvo poi allinearsi nel momento del suo massimo potere, per proprietà transitiva lo investiva ora dei propri desideri: una destra nuova, presidenzialista, ma anche no, legalitaria, ma anche manettara, ecologista, perché no...
Si sa che la storia, quando si ripete, trasforma il dramma in farsa. Dove c'era un cognato siamo venuti a scoprire anche un suocero, dove c'era una moglie «colpevole» in fondo soltanto di avere un fratello, si è scoperta una moglie proprietaria della casa del fratello, dove c'era un'archiviazione della magistratura è venuta alla luce una cooptazione del relativo magistrato come sottosegretario nel governo Monti appoggiato dal partito finiano, dove c'era un uomo politico ci siamo ritrovati un Scegliete voi la definizione. E mettiamoci una pietra sopra.
Le rare occasioni in cui, guardando la televisione, mi imbatto nell'ex presidente della Camera Fini, mi prende la malinconia. Vedo un mio coetaneo un po' troppo biondo e un po' troppo abbronzato chiamato a dire la sua non si sa bene perché. Da un po' di anni a questa parte è un pensionato a tutti gli effetti e però evidentemente per gli ex politici - come per gli ex attori - il richiamo del palcoscenico è troppo forte. L'ultima volta che l'ho visto difendeva le ragioni del premierato e lo faceva con la stessa sicumera con cui avrebbe potuto difendere quelle contrarie: l'importante è avere un copione.
«Becchino», ovvero Nemesi della Destra, abbiamo scritto un po' di righe fa. Eppure, per quegli imprevedibili zigzag della storia e quindi della politica, da quel «grado zero» in cui Fini aveva cacciato il suo partito e la sua Destra, è nel tempo riemerso qualcosa di nuovo, se non di diverso. I cambi generazionali possono essere salvifici e le biografie di chi li incarna hanno il loro perché. Giorgia Meloni ha oggi più o meno la stessa età del Fini leader di Alleanza Nazionale e, a occhio, questo sembra essere l'unico dato che i due abbiano in comune. Se si scrolla di dosso quel vittimismo e/o rivendicazionismo rancoroso che è purtroppo il marchio di fabbrica di una destra catacombale, può rivelarsi come la sorpresa più interessante degli anni a venire. Deve però fare e non promettere, selezionare e non cooptare, evitare il richiamo della foresta di un linguaggio che ha fatto, e fatto male, il suo tempo («Sono un soldato»...
ma no, ma dai, ma lascia perdere!), non crogiolarsi nel leaderismo fine e/o finiano a se stesso Non lo deve fare perché, oltretutto, le si rivolterà contro. Gli italiani sono stanchi, sono spaventati e, mi si scuserà, sono incazzati. Per non deluderli, non basterà continuare a gridar loro «Sono Giorgia».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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