"Mi serve il portafoglio pieno". E Pietro Maso massacrò i genitori per i soldi

Un omicidio efferato quello compiuto nel '91 e che ha segnato una pagina della cronaca italiana. “Pietro Maso - dice il criminologo Marino D'Amore - rappresenta un tipico caso di ostentazione anaffettiva e deresponsabilizzata rispetto all’atto compiuto"

"Mi serve il portafoglio pieno". E Pietro Maso massacrò i genitori per i soldi

Un terribile omicidio familiare, uno di quelli che ha segnato la storia. Difficile non ricordare il nome di Pietro Maso, il giovane che all’età di 21 anni, per appropriarsi dell’eredità, ha ucciso i genitori Antonio Maso e Mariarosa Tessari, confessando il delitto due giorni dopo, messo alle strette dagli inquirenti.

Gli anni della giovinezza

Nato a San Bonifacio in provincia di Verona il 17 luglio del 1971, la vita di Pietro Maso è stata in un primo momento apparentemente tranquilla. Nessuno dei suoi familiari è riuscito a intravedere i lati oscuri che nascondeva e che poi sono emersi all’improvviso. Fratello minore di due sorelle, Nadia e Laura, Pietro sin da piccolo è stato avvicinato alla Chiesa e ai valori della fede cristiana dai genitori, divenendo chierichetto e poi uno studente del seminario alle scuole medie. L’intoppo è arrivato alle superiori: al terzo anno dell’istituto agrario, Pietro ha deciso di interrompere gli studi e dedicarsi al lavoro. Ma anche qui con pochi risultati. È stato così che il ragazzo si è preso una pausa per dedicarsi completamente a sé.

Giovane e spensierato, godendo dell’appoggio della famiglia che non gli faceva mancare attenzioni e regali, Pietro si è dato alla bella vita acquistando vestiti firmati e accessori che lo rendessero più attraente agli occhi delle ragazze. E i risultati non sono mancati. Il giovane ha infatti intrattenuto diverse e fugaci relazioni amorose delle quali si vantava davanti agli amici. Tra questi ultimi vi era Giorgio Carbognin che ha sempre cercato di imitare Pietro, divenendone succube. Allo stile di vita condotto da Maso non sono rimasti indifferenti nemmeno Paolo Cavazza e Damiano Burato: il primo 18enne e il secondo 17enne. Entrambi, fedeli amici di Pietro, hanno seguito le sue stesse ambizioni.

Foto segnaletica di Pietro Maso

L’inizio dei problemi che alimentano l’idea omicida

Lo stile di vita condotto da Pietro Maso a lungo tempo ha gravato sulle spalle dei genitori con non pochi dissapori, e così il giovane ha dovuto cercare lavoro senza mai eccellere nei campi in cui si è cimentato. Un impiego da commesso al supermercato seguito dalle rapide dimissioni in cambio di una saltuaria collaborazione in una concessionaria d’auto sono divenuti il centro di non poche discussioni in famiglia. "Avevo bisogno di avere il portafoglio pieno - dirà in avanti in un’intervista rilasciata sul Nove - E quando non c’è più legame, si uccidono i genitori".

Liti continue per scelte non condivise hanno portato Maso, il 3 marzo del 1991, a ideare il primo piano per uccidere i genitori. L’intervento della madre e l’inesperienza del giovane ne hanno siglato però il fallimento. La donna ha infatti ritrovato in cantina delle bombole di gas, una centralina di luci psichedeliche, un cuscino che ostruiva il camino e una sveglia. L’intento di Maso era quello di far saltare in aria la casa. L’esplosione non si è consumata perché il giovane, con poca esperienza tecnica, aveva tolto le sicure alle bombole lasciando chiuse le manopole. L’intervento della madre che ha creduto alle giustificazioni del figlio ha fatto poi il resto.

Il fallimento del secondo e terzo piano

Un’altra scoperta successiva a quella fatta in cantina ha messo in allarme Mariarosa Tessari. Tutto è iniziato con il ritrovamento di 2 milioni di lire nelle tasche dei pantaloni di Pietro. Soldi che non potevano appartenere al figlio, dal momento che in quel periodo era disoccupato. La donna ha pensato quindi che il ragazzo fosse coinvolto in qualcosa di losco e ha preteso delle spiegazioni. Trovandosi in grosse difficoltà davanti a tutte quelle domande, Pietro ha raccontato che quella somma era il frutto di provvigioni ricevute in ritardo dal suo datore di lavoro della concessionaria. Per avvalorare la giustificazione, lui stesso si è offerto di accompagnarla in negozio per avere rassicurazioni da parte del titolare.

Così i due si sono messi in macchina. A loro si è aggregato anche il fedelissimo Giorgio Carbognin. La presenza del giovane non era un caso: il suo compito era quello di uccidere la donna colpendola alla testa con uno schiaccia bistecche ma non ne ha avuto il coraggio. Pietro, dopo aver preso atto delle difficoltà dell’amico, ha inventato un’altra scusa per non andare all’autosalone e da qui sono tornati tutti a casa. I dubbi e le preoccupazioni tormentavano la donna. Intuiva che il figlio stesse nascondendo qualcosa ma non riusciva a capire di cosa si trattasse. Rimaneva ignara che ancora una volta la sua vita era a rischio: Giorgio avrebbe dovuto ucciderla una volta arrivati nel magazzino, ma anche lì la mancanza di coraggio ha riservato alla donna qualche giorno in più di vita.

Le ultime bravate

I soldi che Mariarosa aveva trovato nelle tasche del figlio non erano altro che parte di un prestito ottenuto da Giorgio dalla banca con un escamotage. L’intento del ragazzo era quello di comprare una macchina ma i suoi genitori si erano opposti. Dunque, invece di restituire la somma, Giorgio aveva deciso di usare quei soldi con Pietro e gli altri amici. Tra spese folli in abiti firmati, gioiellerie, ristoranti di lusso e discoteche, i soldi sono finiti nel giro di poco tempo. Giorgio in grandi difficoltà con la banca si è così rivolto a Pietro, che per aiutarlo ha staccato un assegno dal conto della madre imitandone la firma. Il danno era ormai fatto. Secondo Pietro era arrivato il momento di eliminare i genitori prima di essere scoperto. "Non ero mai soddisfatto - ha dichiarato Maso sul Nove -mai contento. Ridevo ma ero morto. Maso ha soffocato e fatto sparire Pietro. Ero un morto che camminava".

Quarto tentativo: Pietro Maso uccide i genitori

La notte tra il 17 e il 18 aprile del 1991, Pietro Maso si è incontrato con Giorgio Carbognin, Paolo Cavazza e Damiano Burato per discutere gli ultimi dettagli del piano omicida. Con loro vi era anche un altro amico, Michele, il quale pensava si trattasse di uno scherzo. Appunto per questo motivo, quando ha accompagnato tutti a casa di Pietro, è andato via senza preoccuparsi più di tanto. I signori Maso non erano ancora ritornati da un incontro di neocatecumenali e questo Pietro lo sapeva bene. Ha infatti giocato d’anticipo per cogliere di sorpresa i genitori e colpirli senza difficoltà. Non appena arrivato a casa, Antonio Maso ha cercato di accendere la luce senza riuscirvi: il figlio aveva svitato la lampadina per lasciare l’ambiente al buio.

La casa della famiglia Maso
La casa della famiglia Maso

L’uomo, pensando a un guasto elettrico, ha cercato il contatore e una volta arrivato in cucina è stato colpito dal figlio con un tubo di ferro mentre Damiano lo ha stordito con un colpo di pentola. Entrambi hanno poi preso la vittima a calci in testa. Al seguito è salita Mariarosa. Stessa sorte anche per lei: armati di bloccasterzo e pentola, Paolo e Giorgio l’hanno colpita ovunque. Pietro le ha messo poi del cotone in bocca per soffocarla. Dopo quasi un’ora di agonia e torture, i coniugi Maso sono morti. "Alla fine c’era un silenzio e un odore di sangue spaventoso", ha raccontato il figlio. Dopo la commissione del delitto tutti gli assassini si sono creati un alibi. Pietro è andato in discoteca e al ritorno ha allertato i vicini di casa chiedendo aiuto e simulando una rapina finita in tragedia.

“Un tipico caso di ostentazione anaffettiva e deresponsabilizzata rispetto all’atto compiuto - dice a IlGiornale.it il criminologo e docente presso l’Università Niccolò Cusano Marino D’Amore - Tale freddezza e la cura con cui Pietro ha pianificato minuziosamente l’atto stesso lo definiscono come un’incompetente sociale e un analfabeta emotivo, ossia una persona incapace di gestire le normali dinamiche relazionali di un individuo ma soprattutto che non sa riconoscere le emozioni che prova e non riesce a decodificare quelle altrui. Tale condizione portata alle estreme conseguenze, ha relegato gli altri individui, in questo caso i genitori, a semplici ostacoli da eliminare per il raggiungimento del proprio irrinunciabile obiettivo, cioè l’eredità".

Dalle indagini al processo

Le indagini condotte dagli inquirenti hanno messo alla luce che non si era trattato di una rapina terminata con l’omicidio. Tutto riconduceva a un atroce gesto del figlio, che sicuramente non aveva agito da solo. Agli elementi raccolti dagli investigatori sono seguite le contraddizioni di Pietro durante gli interrogatori. Due giorni dopo l’omicidio l’assassino ha confessato. Al seguito anche gli altri criminali hanno ammesso le loro responsabilità. I tre, in un primo momento, sono stati arrestati con l’accusa di omicidio volontario, divenuta di duplice omicidio volontario premeditato pluriaggravato dopo l’istruttoria. La posizione di Damiano Burato è stata vagliata dal Tribunale dei minori di Venezia.

Pietro Maso in semilibertà nel 2008
Pietro Maso in semilibertà nel 2008

Nel processo presso la Corte d’assise di Verona il pm ha chiesto il massimo della pena per Maso e poco meno di 30 anni per gli altri assassini. “Tutti gli imputati – ha affermato l’accusa - hanno ucciso costretti dal dio denaro, dimostrando il loro cinismo e la loro crudeltà nella scelta dei tempi, del luogo e dei mezzi per l'azione, una mazza di ferro, un bloccasterzo, due pentole, due maschere e tute per non sporcarsi, perché sapevano che sarebbe stato un orribile massacro". Con sentenza del 29 febbraio 1992, Pietro Maso è stato condannato a 30 anni e 2 mesi di reclusione mentre per gli altri criminali è stata prevista una pena a 26 anni ciascuno. La Corte ha riconosciuto a tutti e tre i giovani le attenuanti generiche e quella della seminfermità di mente, considerandole equivalenti alle aggravanti.

Condanna confermata in secondo grado dalla Corte d’appello di Venezia: “Il caso Maso - si legge nella sentenza - non avrebbe mai avuto ragione di essere senza la simultanea presenza del caso Cavazza e del caso Carbognin, gli uni con gli altri collegati da un raro miscuglio di convergenti e complementari disturbi mentali”. Nel documento si legge anche: “C’è stato vicendevole e reciproco rinforzo delle patologie dei singoli nella interazione criminosa, con il risultato finale di un circolo vizioso di reazioni e controreazioni dove ognuno trovava alimento nella patologia dell’altro, con la conseguenza di un progressivo e collettivo allontanamento dalla realtà”. Condanna divenuta definitiva davanti la Corte di Cassazione. “Su Maso - secondo Marino D’Amore - è riscontrabile un totale deficit empatico che mitiga qualsiasi istanza solidale o affettiva verso l’altro, chiunque esso sia e pone la mancanza di intelligenza emotiva, causa dell’analfabetismo sopracitato, come la scintilla catalizzatrice di comportamenti profondamente antisociali e, nel peggiore dei casi, barbarici come l’eliminazione fisica”.

Pietro Maso oggi

Pietro Maso nel 2013
Pietro Maso nel 2013

Durante la sua prigionia e, precisamente nel 1996, Pietro Maso ha scritto una lettera al vescovo Pietro Giacomo Nonis per dichiarare il proprio pentimento. Il 14 ottobre del 2008 ha ottenuto la semilibertà ed è riuscito a scontare la condanna con 3 anni di anticipo. Riacquisita la libertà, Maso ha fatto dei lavori saltuari e non si è mai sottratto dal frequentare studi televisivi rilasciando interviste sulla sua vita e sollevando gli animi sul web. Nel gennaio del 2016 è stato iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di tentata estorsione verso le sorelle: “Finisco il lavoro di 25 anni fa”, avrebbe detto l’uomo citando le due donne. Poi è stato assolto. Nel marzo successivo è stato ricoverato in una clinica psichiatrica per delle turbe mentali e per la dipendenza da cocaina.

"Appare paradossale come la figura di Maso - dice il criminologo - nel tempo e gradualmente, abbia subito una sorta di ridimensionamento della sua aura omicidiaria, che a prescindere dalle conseguenze giurisprudenziali e detentive, ha vissuto, in certa narrazione mediatica, quasi un tentativo di malcelata riabilitazione, ad esempio, nel mettere in evidenza elementi come le lettere delle ammiratici, del sedicente pentimento e del matrimonio, un’operazione fortunatamente non riuscita che, attraverso la spettacolarizzazione e il sensazionalismo forzato, avrebbe rischiato di rendere, nel tempo e nella memoria, meno chiari i fatti”. Nel 2020 Pietro Maso è stato anche percettore del reddito di cittadinanza.

“L'ex condannato - afferma su IlGiornale.it una fonte vicina alla difesa - è una persona fragile e anche vulnerabile. In più occasioni ha detto di essere pentito di quello che ha fatto, parlando male di se stesso”.

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