Era lo scorso novembre quando la Corte d'Assise d'Appello di Torino aveva condannato a vario titolo 20 persone legate al Fai (Federazione anarchica informale), cellula eversiva anarchica, per associazione con finalità terroristiche, attentati eversivi, strage, istigazione a delinquere. Nel mirino dei giudici non solo le azioni compiute dagli anarchici, tra cui attacchi con ordigni esplosivi e buste incendiarie, ma anche le parole che in certi contesti possono divenire strumenti pericolosi per affermare le proprie posizioni fuorilegge. Il processo ha riguardato una catena di azioni compiute in tutta Italia tra il 2005 e il 2016 contro giornalisti e politici, come l'ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino. Reati commessi "nella più assoluta indifferenza alla possibilità di vittime innocenti", per perseguire finalità che i giudici definiscono "tipicamente terroristiche": intimidire la popolazione, destabilizzare le strutture politiche, economiche e sociali di uno Stato per distruggere qualsiasi forma di potere, costringere le autorità ad agire in un determinato modo.
Ieri sono state rese note le motivazioni, da cui si comprende perché le parole diventano reato . Rispetto alla sentenza di primo grado i giudici hanno condannato alcuni imputati per il reato di istigazione a delinquere per i contenuti di riviste, blog e siti internet di area. Secondo la Corte d’appello si trattava, infatti, di una forma di narrazione "concretamente idonea a catalizzare l’odio sociale nelle più varie declinazioni dei lettori, il cui processo critico e decisionale era orientato da un succedersi ossessivo di pubblicazioni di azioni violente, volte non solo a ottenere adesione ideologica ma soprattutto concreto impegno nella solidarietà rivoluzionaria attiva e distruttiva".
Le pubblicazioni istigano alla violenza. Quindi divulgare sul web "rivendicazioni e comunicati di formazioni terroristiche" ha un rilievo penale. E i giudici, riprendendo una sentenza della Cassazione sul reato di istigazione a delinquere, sono stati chiari. Il parallelismo è con il terrorismo di matrice islamica, con le "consorterie di ispirazione jihadista su scala internazionale". Dall'indagine della Digos, coordinata dai magistrati Roberto Sparagna e Paolo Scafi, è emerso il peso di scritti e commenti su siti e giornali d'area per rafforzare le strategie eversive. "Le pubblicazioni accompagnavano l'esaltazione della violenza e dei loro autori, la giustificazione degli attentati dinamitardi ed incendiari", hanno scritto i giudici in contrasto con i colleghi del primo grado.
Nei documenti analizzati c'è "l'esaltazione di anarchici stragisti del passato, l'affermazione dell'assoluta irrilevanza della vita dei bersagli". Un esempio di ciò può essere un articolo che è stato attribuito ad Alfredo Cospito, tra gli imputati principali, già in carcere per la gambizzazione a Genova nel 2012 dell'amministratore dell'Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi, in cui si fa riferimento all'omicidio del commissario Calabresi: "Per il caso Calabresi scattò lo sdegno di una parte del movimento e senza ritegno si tentò di insozzare un'azione esemplare, lucida, chirurgica".
Il passaggio, citato nelle motivazioni della sentenza d’appello, è apparso nel 2015 su una rivista di area, Croce Nera Anarchica, ma non si tratta di una rivendicazione, visto che nel testo si sottolinea che Calabresi fu ucciso il 17 maggio 1972 da "sconosciuti" tanto che non sono state mosse accuse specifiche all’autore da parte degli inquirenti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.