Soldato tra i soldati, ultimo imperatore prima della divisione dei domini di Roma tra Oriente e Occidente a cercare di opporsi alle spinte centrifughe che dilaniavano la Res Publica, stratega politico di non secondario spessore Aureliano è stato uno dei più importanti eredi dei Cesari, nonostante oggigiorno la sua parabola umana e di governo sia spesso sottovalutata negli studi sull'Urbe.
In questi mesi su Il Giornale abbiamo approfondito i lati più salienti della storia della Roma antica in grado di fornire lezioni e visioni al presente: abbiamo seguito Roma dal momento dell'impresa di Cesare e del suo trionfo, apripista per la trasformazione della Repubblica in impero, all'estremo tentativo di Ezio, "ultimo dei romani", di opporsi al declino irreversibile dell'Urbe a cavallo tra la prima e la seconda metà del V secolo. La rotta di Adrianopoli (378) era stata la vera cesura per Roma, facendo venire meno la sua capacità di leggere con taglio pienamente "geopolitico" il contesto internazionale. Roma ha avuto, come abbiamo visto, precursori e estremi difensori; principi illuminati e comandanti imbelli; eroi e traditori; uomini d'arme e teorici politici. Un solo comandante della storia antica romana ha potuto essere, nella sua vita, un vero e proprio restauratore. Un imperatore capace di invertire, nel breve lasso di pochi anni, una situazione che si presentava drammatica e anticipatoria di un'irreversibile declino: Aureliano.
Nativo di Sirmio, città della Pannonia posta nell'attuale Serbia, Lucio Domizio Aureliano (214-275) portò avanti nel corso dell'intera vita una condotta basata su un duplice presupposto: da un lato, l'irrinunciabile rigore militare, proprio di chi mirava a resistere e fare carriera nella Roma sconvolta nel III secolo dall'anarchia militare,dalla continua faida tra tribuni, comandanti e usurpatori che aveva precipitato nel caos l'Impero portando la gloria bellica delle legioni dei "figli di Marte" a trasformarsi in una dura lotta fratricida. Dall'altro, un fervente zelo religioso legato al culto del Sol Invictus, che per il futuro restauratore dell'Urbe si sostanziava in una forma di monoteismo missionario e in grado di unificare, anche come fattore amalgamante sul piano umano e politico, le varie differenti forme di politeismo sparse per la Res Publica, accomunate dalla presenza della venerazione di figure associate all'astro (Helios, El-Gabal, Mitra, Apollo).
In una Roma sconvolta dalle guerre civili, da epidemie e invasioni di popoli esterni, da una crisi di sfiducia apparentemente irreversibile, in una fase in cui le legioni acquisivano centralità e potere sostituendosi al Senato come strumento di proclamazione degli imperatori Aureliano tra Oriente e Occidente dal 234 in avanti portò avanti una carriera militare che ebbe un'accelerazione nell'ora più buia dell'Impero, quella apertasi tra la caduta dell'imperatore Valeriano (260) come prigioniero dei Sasanidi e la graduale insorgenza di usurpatori nell'era del figlio Galieno, che sarebbe morto nel 268.
Aureliano, tribuno militare e comandante della Legio VI Gallicana, in quegli anni si distinse per un vero e proprio dono dell'ubiquità: lo si trovava, a distanza di poche settimane, dapprima a supervisionare i rafforzamenti delle roccaforti a Bisanzio e in seguito sul Danubio o sul Reno a combattere contro i Franchi e i Goti; non trascurava, nel frattempo, la partita politica, sostenendo dopo la morte di Gallieno l'ascesa al trono del suo patrono Claudio il Gotico, alla cui morte per peste, nel 270, Aureliano si ritrovò investito dell'autortità imperiale.
La storia fa gli uomini e gli uomini fanno la storia: raramente singole figure hanno la capacità di invertire il flusso caotico degli eventi. Vista retrospettivamente, l'era di Aureliano imperatore, durata soli cinque anni prima del suo assassinio, avvenuto nel 275 per un complotto ordito da uno dei suoi segretari per una vendetta privata, è una folgore nel cuore della storia della crisi del III secolo. Cinque anni di battaglie, lotte e strategie di lungo periodo assicurarono le premesse perché Diocleziano e Costantino, nei decenni successivi, rilanciassero l'assetto dell'impero. Garantendo di fatto almeno due secoli di storia alla costruzione dei Cesari.
Aureliano appariva essere ovunque e in nessun luogo al tempo stesso. Guidando personalmente gli eserciti a marce forzate appariva in grado di tamponare ogni minaccia e di reggere la pressione di un contesto che aveva portato l'impero a subire tre minacce convergenti: sul limes renano e danubiano, le continue scorribande delle tribù barbare; a Occidente, la nascita dell'Impero delle Gallie, governato da generali e usurpatori ribelli a Roma dal 260 al 274; a Oriente, la secessione del Regno di Palmira avviata da Zenobia, vedova del Persicus Maximus Settimio Odenato, che aveva difeso le province romane dalle incursioni sasanidi dal 262 al 268 e della cui gloria riflessa la sovrana approfittava.
Quella di Aureliano fu a tutti gli effetti una strategia difensiva condotta in profondità, con dinamismo e attenzione. L'imperatore accorciò le linee di difesa dell'Impero, ordinò la dolorosa evacuazione della Dacia conquistata da Traiano, riportò l'impero al di qua del Danubio, cinse con mura solida Roma e le altre maggiori città, segno di una cautela da non confondere con introversione, mosse a tutto campo le armate per ricordare a tutti i cittadini che non doveva esserci contraddizioni tra le parti della Res Publica. Il suo fu l'estremo tentativo di ricordare a tutti la necessità di mantenere coeso l'Impero, e nulla poteva supportare questa sua volontà meglio dell'ultimo periodo di volo prolungato delle aquile delle legioni.
Nel 271 Aureliano schiantò a Fano, sul Metauro, gli Alemanni che avevano invaso l'Italia, distruggendone poi l'esercito nella successiva battaglia di Pavia; subito dopo, si dedicò alla soppressione della rivolta di Zenobia. Nella marcia di avvicinamento dall'Italia all'attuale Siria, batté altri due popoli barbari, Goti e Carpi che gli muovevano contro, ed attraversato il Danubio uccise il capo dei Goti, Cannabaude, per poi ordinare di fortificare le Alpi Giulie per difendere le vie d'accesso che da Pannonia e Dalmazia portavano in Italia; tra il 272 e il 273 schiacciò Zenobia e il suo regno ribelle, che aveva nel frattempo minacciato l'integrità di Roma includendo Cilicia, Siria, Mesopotamia, Cappadocia ed Egitto e mettendo a repentaglio la prosperità e la sicurezza alimentare della Res Publica. Subito dopo, fu sventata una nuova incursione dei Carpi oltre il Danubio e fu raggiunto con loro un accordo di coesistenza; precipitandosi da Oriente a Occidente Aureliano, infine, soppresse la ribellione dell'Impero delle Gallie nel 274.
L'esercito di Aureliano marciava coeso di vittoria in vittoria. Tra i soldati regnava il culto unificante del Sol Invictus, dominava la certezza della vittoria e la speranza di poter, con la riunificazione dell'Urbe, porre fine a decenni di guerre e sconvolgimenti. Anticipando le mosse di Costantino sul Cristianesimo, Aureliano promosse il culto solare come forte elemento di coesione culturale e politica dell'Impero, conscio della necessità di nuovi riferimenti politici, culturali, religiosi. La sua stagione fu caratterizzata da un'inversione delle fortune declinanti di Roma che ben si riflettono nella serie di titoli concessi al generale-imperatore dal Senato: Dacicus Maximus, Gothicus Maximus, Parthicus Maximus, Palmyrenicus maximus, Adiabenicus, Parthicus maximus, Persicus maximus. In un'espressione, come sintetizzò la zecca di Lione nel conio seguito alla caduta dell'impero delle Gallie, Restitutor Orbis, il restauratore di un ordine sociale e politico che si riteneva dover durare per sempre come ordinatore del mondo conosciuto.
Aureliano, visto col senno di poi, fu vincitore o sconfitto? A favore della prima idea, vi è sicuramente la continuità storica bisecolare che, pure in una fase di graduale degenerazione, l'impero visse, proseguita per un altro millennio a Costantinopoli; a favore della seconda, il fatto che la riunificazione imposta con le armi fu, di fatto, il presupposto per le future scelte di decentramento operate da Diocleziano prima e, in prospettiva, da Teodosio un secolo dopo. Certamente alla rapidità del fulmine di guerra che gli consentì di riunificare l'impero Aureliano univa la consapevolezza della necessità di trovare nuovi fattori di coesione per una costruzione millenaria.
E in un certo senso uno dei suoi grandi meriti fu di seminare, col Sol Invictus, la consapevolezza che poi avrebbe raccolto il cristianesimo, diffusosi a macchia d'olio tra III e IV secolo nei territori di Roma. Un altro segno di come, tutt'altro che indirettamente, le imprese del guerriero nativo della Pannonia abbiano contribuito a plasmare anche il mondo in cui viviamo oggi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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