S'impone il ricordo personale (ma esistono forse ricordi non personali?). Quarant'anni fa, un mio amico scriveva poesie con gli scontrini del supermercato; non semplicemente sugli scontrini, come avrebbe potuto fare un romantichello qualsiasi per poi magari donarli alla bella cassiera, ma proprio con gli scontrini, inserendo parole scritte a penna fra altri generi di prima necessità, tipo «pane», «carta igienica», «sottilette», «cancelleria»... Diceva che era un adattamento moderno della scrittura automatica surrealista. Fu sempre quel mio amico, e non per caso, a consigliarmi di leggere I canti di Maldoror. Inoltre, andava matto per il calcio (in cui eccelleva), e non genericamente quello sudamericano, ma specificatamente quello platènse.
Ho pensato a quel mio amico, e alla sua creatività ingarbugliata e vulcanica, leggendo il romanzesco saggio Non lascerò memoria. L'enigma del Conte di Lautréamont (Castelvecchi, pagg. 272, euro 18,50, traduzione di Roberta Arrigoni, nelle librerie da oggi). Infatti l'ha scritto un platènse, Ruperto Long, ingegnere, politico e letterato nato a Rosario, in Uruguay, nel 1952, e tratta di un altro platènse, «el Montevideano» che i surrealisti veneravano. Scrive Long che «la notte del 14 febbraio 1930 alcuni surrealisti capeggiati da Breton e Char si presentarono all'inaugurazione del Maldoror, un cabaret di Montparnasse, e sdegnati dalla scelta di battezzare con quel nome sacro un locale notturno di dubbio gusto, provvidero a espugnarlo e saccheggiarlo. Sacrilegio! Maldoror per un surrealista è come Gesù Cristo per un cristiano! tuonò René Char facendo irruzione nella sala. Un altro dei fondatori del movimento si spinse anche oltre: Nessuno ha il diritto di giudicare il signor conte. Lautréamont non si giudica. Lo si riconosce e lo si ossequia vedendolo passare». Anche se era morto sessant'anni prima.
Ecco, Parigi, «la capitale del mondo». La seconda patria di Isidoro Ducasse, alias conte di Lautréamont, alias l'autore dei Canti di Maldoror. E quello scagliarsi di Char contro i profanatori del suo idolo... Eppure secondo Breton, che nel 1924 del Surrealismo aveva scritto il Manifesto, tra i profanatori del «Montevideano» era da annoverare anche un grande amico di Char, Albert Camus. Sui Cahiers du Sud nel '51 era apparso in anteprima un capitolo del libro di Camus L'uomo in rivolta. Un capitolo dal titolo «Lautréamont e la banalità». Che inizia così: «Lautréamont dimostra che il desiderio di sembrare si dissimula, nell'uomo in rivolta, anche dietro alla volontà di banalità». Ma fu proprio Char, con Octavio Paz, a difendere il fiero algerino, consigliandogli tuttavia di «abbassare i toni del confronto».
Il libro di Long, incorniciato in una plausibile fiction datata 1968, anno elettrico quanto quelli del Surrealismo e quanto quelli (troppo pochi) vissuti da Isidoro Ducasse (Montevideo, 4 aprile 1846 - Parigi, 24 novembre 1870), scandaglia l'abisso sulfureo del «Montevideano», alle prese con quel Faust surreale di Maldoror, fino al suo estremo atto di redenzione, o di ultimo sberleffo, rappresentato dalle
Poesie. E a fianco del grande solitario che diede forme immaginarie ai propri tormenti troppo reali, Long colloca il sociale-asociale e disilluso Camus. Perché la vera rivolta è sempre un atto individuale. Come i ricordi.
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