Philip Roth, nato nel 1933 a Newark, nel New Jersey, da una famiglia della piccola borghesia ebraica osservante, irruppe sulla scena mondiale della letteratura nel 1969, quando uscì Il lamento di Portnoy. Era già autore di alcuni libri, tra cui la raccolta di racconti, pieni di humour e di irriverenza, intitolata Addio, Columbus. Ma sin lì Roth sarebbe rimasto uno scrittore come tanti. Dopo Il lamento di Portnoy, il trentaseienne autore americano diventò un numero uno, una icona del romanzo mondiale. Tale è rimasto sino alla fine. Fu proprio lo straordinario tour de force stilistico e la comicità ribalda e malinconica con cui diede vita e voce al suo personaggio, Alexander Portnoy, che conquistò i lettori di allora. Io lo ricordo bene. Perché allora, ancora giovanissimo, fui subito tra gli ammiratori entusiasti, tra quelli che vissero l'uscita del romanzo come un momento di liberazione di nuove energie narrative ed espressive. Il libro era un lungo monologo, una confessione davanti allo psicoanalista. Ma non era il tema della psicoanalisi al centro dell'interesse. Al centro c'era la vicenda di una educazione sessuale tra repressione e scatenamento, di una ossessione che può trovare l'unica via di uscita in uno scoppio di riso gigantesco, amaro e liberatorio.
La figura paradigmatica della castrante madre ebrea, il padre chiuso nel suo guscio stretto e grettamente privato, tanto che l'annuncio del lancio della bomba su Hiroshima gli fa solo pensare che forse era la volta buona che avrebbe vinto la propria stitichezza, scene di un grottesco sessuale unico e indimenticabile, come quella in cui Portnoy si masturba con una fetta di fegato sottratto al frigo e riflette tra piacere e pentimento che si è fatto la cena della sua famiglia: tutto questo proietta il romanzo in una dimensione di grandiosità bassa e antieroica, ma pur sempre unica, e terribilmente coinvolgente.
A Chicago, oltre che la prima moglie, Roth aveva conosciuto Saul Bellow. Sicuramente lo ha sentito come un maestro, come un capofila. Ma Bellow, il grande autore del Dono di Humboldt e di tanti altri romanzi, non aveva mai radicalizzato tanto gli argomenti di natura sessuale. Neppure Bernard Malamud, l'altro esponente di primo piano nella narrativa ebraico-americana, che in Vite di Dubin si era persino ispirato a D.H. Lawrence, il severo profeta della sessualità libera. Per Roth il sesso è un problema mentale, con regressioni masturbatorie, che può risolversi in una trasgressione rimbombante e irridente. Quando Norman Mailer scrisse Il prigioniero del sesso, e parlò di Lawrence, Miller, Anaïs Nin, e se stesso, stabilì una tradizione che a Portnoy è estranea: l'eros, il raggiungimento del piacere per lui non è una leva per reinterpretare il mondo, ma un tormento intorno a cui ruotare con vis comica e acrobazie stilistiche. Dopo il trionfo del Lamento di Portnoy, vennero tanti altri grandi libri e successi. E tanti altri personaggi ricorrenti, mentre lui rimase unico, nei vari romanzi. E penso a David Kepesh, che appare in Professore di desiderio (1978) e ritorna in L'animale morente (2001).
Penso alla figura centrale di Nathan Zuckerman, un alter ego dello scrittore stesso che troviamo in Zuckerman scatenato (1981) e incontriamo poi in altri libri sino a Pastorale americana. Quest'ultimo romanzo, uscito nel 1997 e premio Pulitzer l'anno dopo, per molti è il vertice della maturità di Roth. È un grande affresco della vita americana, incentrata sul personaggio di Seymour Levov, lo svedese, sportivo, positivo, realizzato, e sul rapporto con la figlia Merry che, diventata terrorista e assassina, crea una crepa terribile nel suo mondo, mentre sullo sfondo compaiono i bagliori della guerra del Vietnam e i veleni dello scandalo del Watergate. Negli anni Novanta, che Harold Bloom definisce come quelli dello splendore di Roth, escono romanzi con echi shakespeariani, Operazione Shylock. Una confessione e Il teatro di Sabbah.
Intanto Roth è sempre più lo scrittore per eccellenza, il mancato Nobel gli attira più attenzioni e simpatie nel mondo di quanto avrebbe fatto il conferimento del premio. Nella fase più recente della sua produzione, si nota un passaggio verso temi più meditabondi, dove tutto quello che riguarda il sesso si declina in una chiave più cupa, del tutto dimentica della debordante energia degli esordi. Nondimeno, un libro come L'animale morente è ancora un capolavoro. David Kepesh, il professore di desiderio, l'abile corteggiatore e seduttore di studentesse il giorno dopo che sono finite le lezioni, sente il tema dell'età che avanza, del corpo che cede davanti alla giovane e fascinosa cubana Consuela Castillo, dal seno stupendo e dal pelo pubico liscio come quello delle orientali. La coscienza del primato del corpo, dichiarato sin dalla epigrafe tratta da Edna O' Brien ( «Nel corpo, non meno che nel cervello, è racchiusa la storia della nostra vita»), può creare ancora momenti di irresistibile verve, come quando Kepesh racconta di Consuela: «La prima volta che me lo succhiò, muoveva la testa con l'inesorabile rapidità di una mitragliatrice». Ma introduce anche il momento della morte e ancora peggio della malattia, che compare in L'animale morente e diventa centrale in Everyman. Un libro cimiteriale, incentrato sul disfacimento del corpo del protagonista senza nome, da una appendicite e peritonite sino all'applicazione di uno stent renale, a problemi coronarici, a ostruzioni della carotide, prima la sinistra, poi la destra che gli sarà fatale.
La crisi portò Roth verso i poeti, Yeats, Keats, si sarebbe detto verso una solenne meditazione sulla fine.
Ma quando i giornali di tutto il mondo lo fotografarono in strada a New York mentre per protestare contro Bush reggeva un cartello con su scritto: «Ridateci la Levinski», confesso che non mi interrogai sulla validità politica di quello slogan, forse inesistente, ma che sorrisi pensando che lì riaffiorava Portnoy, le sue ossessioni che lo portavano a pensare che dopotutto, al contrario di guerre e potere, una fellatio non aveva mai fatto male a nessuno.
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