Ecco chi è il «cuoco neoarcaico»: usa solo pignatte di coccio e aglio selvaggio raccolto al cimitero

diAnche l'omonimo discendente dell'illustre Gian Canio Caraffa d'Acquaviva stava rincasando, se non proprio felice, sicuramente soddisfatto essendo i suoi gemiti sinistri, sotto la lapide dell'antenato, ormai un ricordo. La taverna del figlio andava infatti a gonfie vele. E non solo per l'afflusso di pubblico – pubblico qualificato ed esigente della più varia provenienza, eh! – ma anche per il favore che sempre più critici mostravano verso le proposte di Adelchi, il quale aveva iniziato a fare le sue prime apparizioni in tivvù, pure se, essendo il giovane poco disponibile ad allontanarsi dalla cucina, sarebbe meglio dire che era la tivvù a fare le sue apparizioni alla taverna... Accidenti però, quel «taverna» il vecchio barone continuava proprio a non digerirlo.
«Ma benedetto figliuolo, perché devi svilirti con questa definizione? Ormai abbiamo tutte le carte in tavola per chiamarlo ristorante, non ti pare?».
Ad Adelchi non pareva. «Guarda papà che “taverna” è più in linea con la mia idea di cucina... Non hai sentito ieri sera Bardelli nel suo programma? Io sono un “neoarcaico”», e s'era fatto una risata.
Meno male almeno che nessuno più affiancava a «taverna» il nobile patronimico dacché, per tutti, era ormai la «Taverna di Gordon». Ma lo stesso, il barone non si rassegnava.
«Dai, promettimi che alla prima stella Michelin passiamo a chiamarlo ristorante... Meglio ancora: restaurant, alla francese! Senti senti come suona bene Restaurant da Gordòn. Promesso?».
«Ddiomio, ma ormai c'ha n'età. Ma perché non lo accogli nel tuo abbraccio misericordioso!», pensò con uno sghignazzo Adelchi. Poi, più che altro per non sentirselo nelle orecchie, aveva però promesso: «E vada per Restaurant da Gordòn!».
Già, ma il punto era che, nonostante il successo, quelli della Michelin ancora non s'erano fatti vivi. «Francesi dimmerda!», si disse, ruminandoci, Gian Canio e, per l'occasione, tornando a gemere come ai vecchi tempi. Eppoi: «Missà che quasi quasi tocca far di nuovo intervenire il generale Crocco!», adesso però ridendosela, mentre il portone si spalancava con il suo nobile cigolio.
Un cigolio simile, sebbene un po' meno nobile, a quello prodotto in quel momento dalla porta a molla che i camerieri spalancarono entrando in sala. Si trattava pur sempre della porta di una «taverna», no?
Ogni volta che lo sentiva, Adelchi pensava: a) che bisognava oliarla; b) con un tuffo al cuore, che il suo locale era finalmente diventato quello che aveva sempre sognato diventasse.
Dalla comparsa di Gordon Lee Foster, e i relativi servizi in televisione, dopo la prima ondata di vip watchers, erano iniziate le visite dei giornalisti del settore che avevano decantato il suo virtuosismo – «Possiede, in cucina, il tocco dei grandi pianisti del mito», aveva scritto il più entusiasta tra loro –, sia sulle riviste specializzate sia sui magazine di più grande diffusione, col risultato che adesso la «Taverna di Gordon» – sì, la chiamavano così anche loro – era sempre piena per lo più di gourmet che ci venivano apposta dai luoghi più impensabili essendo essi, i gourmet, dotati dello stesso fervore che spinge i pellegrini verso i santuari dispersi nel mondo. E tutti erano estasiati dai suoi piatti. Eppure, Adelchi cucinava le stesse cose di quando si ritrovava ai tavoli i soliti quattro gatti.
«Questo è il destino degli uomini: tutto è legato a una botta di culo!», si disse filosoficamente mentre, una mattina, stava mettendo a punto due sue nuove ricette: «Perché poi, comunque, tocca mantenere le postazioni». E lui era ben intenzionato a mantenerle.
Aveva dunque assunto un secondo in cucina e un paio di camerieri, e dopo qualche difficoltà – nei primi tempi, gli era capitato qualche lavativo: uno, dopo la prima serata di pienone, aveva preferito tornarsene a stazionare davanti al bar Rosetta, un altro ce l'aveva spedito lui – disponeva adesso di collaboratori in gamba e, soprattutto, pieni d'entusiasmo. Lo stesso che aveva lui, quello che non ti fa sentire la stanchezza, e che anzi ti innalza e ti dà forza come in una specie di ascesi. Non a caso, un altro giornalista, una delle firme di «Chef Star», lo aveva definito «l'inimitabile asceta del coccio!» e non certo solo per la sua propensione a usare pignatte, appunto, in coccio e, tra queste, unicamente quelle prodotte con la creta particolarissima di Grottaglie.
È chiaro che Adelchi era il primo a sapere che una creta vale l'altra ma qualche eccentricità, ogni chef che si rispetti, deve pure inventarsela per questi esaltati che sono in genere i critici gastronomici e lui, stufo delle ben altre astruserie dei cuochi più alla moda, presso i quali s'era impratichito, capaci di partorire piatti come la «tazza di vongole schiumose in crema di patate con sottofondo di cioccolato», s'era indirizzato, sull'esempio del più decisivo dei suoi maestri, verso quel «neoarcaismo» che era, via via, divenuto la cifra stessa della sua cucina.
Dotato di un olfatto animalesco, sapeva riconoscere l'ingrediente giusto dal profumo, anche a distanza. E così eccolo, la mattina presto, a cavallo della sua giumenta e con le bisacce piene di carosello, bacche di sambuco, cicoria ed erba cipollina, di ritorno dalle zone più selvatiche dei dintorni, compreso il vecchio cimitero abbandonato di Cite'mmuort che dava un aglio selvaggio gustosissimo; certo a non conoscerne la provenienza. Ma soprattutto con l'idea d'una cucina che, consegnando al palato il sapore del trascorrere delle stagioni, esaltasse l'autentica miniera di sapori segreti del Sud.
Idea che, appena sceso da cavallo, stava mettendo ulteriormente in pratica mentre cuoceva frattaglie di fegato, polmone e rognone – come vuole la tradizione più povera dei pastori lucani, scegliendo le parti meno nobili tra esse – insieme a foglie di prezzemolo gigante, carosello e semi di finocchio selvatico – pure quelli appena raccolti tra le tombe di Cite'mmuort – ma evitando il pepe nero.

Piatto che, aggiungendovi dell'alloro, avrebbe cotto alla griglia facendo bruciare rami di ulivo e ramagghia – cioè il fogliame della stessa pianta messo a seccare per vari mesi – e che poi avrebbe ripassato in padella nell'intingolo raccolto sotto la griglia, per frullarlo, infine, «gelando» il tutto e ottenendo un paté che «il fruà grash ci fa na pippa», si disse con un ghigno Adelchi. «Peccato stu cazz'i nomme: gnumm'ri- edd».

© 2014 Mondadori Electa

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