Quando Michail Gorbaciov arrivò sulla scena del mondo lo shock fu simile a quello provocato dal lancio del primo satellite artificiale Sputnik nel 1956. Sembrò di colpo che quel grigio e misterioso mondo dell'Unione Sovietica dove nessuno sembrava felice, avesse prodotto un nuovo fenomeno in grado di riportare il Paese della Rivoluzione d'Ottobre alla ribalta del progresso e dell'innovazione.
L'Occidente è sempre molto vulnerabile quando assiste ai successi improvvisi e inspiegabili di regimi che sfuggono al controllo democratico e alle verifiche giornalistiche. Gorbaciov era il settimo e ultimo leader del Paese dei Soviet e non somigliava ad alcuno dei suoi predecessori. Non al mummificato Cernienko che lo aveva preceduto nel grigiore più assoluto, non al vecchio Breznev che aveva mantenuto il comando per decenni e certamente non a Krusciov o a Malenkov e meno che mai a Stalin e a Lenin. L'uomo nuovo - meraviglia e sorpresa nello stagno occidentale in cui gracidano le rane, come diceva Platone - era relativamente giovane, e aveva persino una moglie giovane e graziosa come Raissa che poteva essere equiparata a una First Lady. Una svolta formale che sembrava anche sostanziale. Gorbaciov era stato selezionato da un grande e feroce intellettuale: Yuri Andropov che era stato a lungo il capo e riformatore del Kgb trasformato grazie ai transfughi inglesi (i «quattro di Cambridge») in una via di mezzo fra la Compagnia di Gesù onnipotente e onnipresente e l'Mi6 britannico. Andropov voleva cambiare tutto affinché tutto restasse come prima e quando diventò Segretario, scelse il promettente rampollo Gorbaciov come successore. Ma Andropov morì poco dopo e la fazione in conflitto con il KGB bloccò l'ascesa di Gorbaciov e insediò Cernienko, l'ultima cariatide della vecchia nomenklatura. Anche il decrepito Cernienko durò poco e arrivò finalmente nel marzo 1985 l'ora del «giovane Gorbaciov», come lo chiamò il presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini che, raggiunto dalla notizia mentre era in visita di Stato in Argentina, mollò tutto e tutti per correre a Mosca «a dare una mano al giovane Gorbaciov».
Il «giovane Gorbaciov», classe 1931, l'unico e ultimo leader nato dopo la Rivoluzione d'Ottobre, annunciò immediatamente una grandiosa riforma fondata su due parole russe che diventarono subito popolari in tutto il mondo: Glasnost che più o meno vuol dire trasparenza, chiarezza; e Perestroika che significa ristrutturazione, riforma dalle fondamenta. La prima sessione d'esami per giornalisti professionisti in Italia successiva all'insediamento di «Gorby» (altro nomignolo amichevole e affettuoso che fu lanciato dai media russi e raccolto subito da quelli americani) chiedeva a tutti i candidati di spiegare bene queste due nuove parole e il loro potenziale significato storico.
Le speranze furono enormi, l'esaltazione per Gorby dall'aria sorridente che si avventurava anche a pronunciare qualche frase in inglese, non aveva limiti: il mondo mediatico e politico era ai suoi piedi, ma la sua divinizzazione avveniva tutta e soltanto nel mondo occidentale, sotto lo slogan «pazzi per Gorby». In patria, quest'uomo tanto promettente non era affatto amato e anzi considerato sia uno snob che un prodotto elaborato dei servizi segreti. Alla fine fu proprio lo stesso Kgb che lo aveva generato a scalzarlo dal potere con una parodia di colpo di Stato che riuscì a metterlo ai margini e a dare spazio al secondo uomo nuovo pronto a distruggere l'Unione: Boris Yeltsin, grande ubriacone e grande amante della democrazia occidentale e degli Stati Uniti.
Il fatto è che Gorbaciov non riuscì mai ad essere eletto dal popolo, fallendo ogni tentativo di legittimazione dopo il ripristino di una parvenza di democrazia. Così rimase quel che era stato fin dall'inizio: l'ultimo prodotto del sistema di potere, incapace di riformarlo come aveva promesso e sognato e alla fine prigioniero di un meccanismo che non faceva sconti a nessuno.
Io ero a Mosca pochi giorni prima del colpetto di Stato dell'agosto del 1991 e ricordo la folla fuggire a gambe levate dalla Piazza Rossa quando dai magazzini Gum entrarono una ventina di «kaghebè», agenti del Kgb che incutevano un terrore fisico che non avrei mai immaginato. Io rimasi perché non avevo capito nulla e si associò a me una sorta di poeta pazzo con la barbetta caprina e insieme affrontammo due mastodontiche autocisterne che lanciavano fiumi d'acqua su chiunque incontrassero. Fradici, restammo a guardare i kaghebè e le autocisterne allontanarsi e fummo raggiunti da un gruppo di giovani studenti in preda a una crisi di felice follia che ci imposero di brindare con uno champagne caldo e dolciastro. Ma questa esperienza mi dette il polso della fiducia dei cittadini nel potere di Gorbaciov e dei suoi uomini.
In Occidente invece la perestroika e la glasnost ebbero come padrino e madrina il presidente americano Ronald Reagan e la lady di ferro inglese Margareth Thatcher che aveva accolto da poco il più grande defezionista del KGB, il colonnello Oleg Gordievski (poi mio buon amico dopo la morte del dissidente Alexander Litvinenko a Londra) il quale fornì al servizio segreto britannico Mi6 tutti i piani politici, economici e militari del governo Gorbaciov.
Il nuovo «presidente» russo fu adottato dalle democrazie europee come un figliol prodigo e quando Ronald Reagan gli lanciò l'invocazione ad abbattere il muro di Berlino («Mister President, put down that wall!») lui accolse il suggerimento, volò a Bonn che allora era la capitale della Germania occidentale e pronunciò un discorso al Bundestag, il Parlamento federale, in cui promise la tanto attesa demolizione. Quando il giorno successivo arrivò a Berlino la folla dalle due parti del muro era impazzita e lo accolse al grido ritmato di Gorby-Gorby.
Gorby avrebbe voluto procedere con ordine, ma la folla non voleva perdere tempo, saltò sul muro con migliaia di picconi e mazze ferrate e buttò giù la vergogna che era stata eretta nel 1961 per bloccare la fuga dei tedeschi dalla Germania comunista.
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