Incredibile, uno scrittore che capisce la politica

Curzio Malaparte vide i mali del Paese a partire dal rapporto corrotto tra Stato e popolo. Come spiega la biografia scritta da Giuseppe Pardini

Incredibile, uno scrittore che capisce la politica

Man mano che passano gli anni e che si decantano passioni e pregiudizi che ne accompagnarono la figura e l’opera, ci si accorge che Curzio Malaparte è stato sotto il profilo delle idee, meglio, delle ideologie molto più coerente di quanto i suoi critici, a volte improvvisati, spesso interessati, abbiano voluto ammettere. In controluce, si può persino osservare che rispetto ai vari “ismi” novecenteschi, dal fascismo al comunismo, dall’azionismo al liberalismo, quello di Malaparte, nel suo mischiare sindacalismo e populismo nel nome dell’antimodernismo, abbia continuato a serpeggiare come un fiume carsico destinato a riemergere ogni qualvolta i sistemi politici si inceppano e/o s’incantano e la tentazione non tanto a riformarli quanto a rifondarli incombe sul panorama circostante. La nuova edizione di Curzio Malaparte. Biografia politica, di Giuseppe Pardini (Luni Editrice, 371 pagine, 25 euro), a vent’anni di distanza dalla sua prima uscita, con una corposa prefazione che tiene conto dei nuovi studi, le nuove edizioni dei suoi libri e le nuove biografie che gli sono state dedicate, permette ormai di fare il punto definitivo sul pensiero di quello che è stato fra le due guerre e fino agli anni Cinquanta della sua morte, il più europeo degli scrittori italiani, pur nel suo essere il più italiano degli scrittori europei.

Scrittore della decadenza e ossessionato dalla decadenza, Malaparte fu per tutta la sua attività di polemista e romanziere un osservatore appassionato, ma non cieco di come le società politiche si corrompano sino al loro crollo, per poi marcire in una più generale degradazione dei valori che corrisponde a una totale perdita del centro, ovvero del senso della vita, la pelle, per citare il titolo di un suo libro famoso, che prende il posto dell’anima. In questo percorso, l’unico argine, sia pure temporaneo, alla decadenza consiste nella paradossale accelerazione della crisi che liberi energie troppo a lungo compresse o negate, valori rimossi o dimenticati, eppure fondamentali nel loro aver delineato una civiltà. Questo pensiero inserisce Malaparte in quello che in un suo bel libro Marcello Veneziani definì felicemente “la rivoluzione conservatrice italiana”, ma che in Malaparte si coniuga però in maniera più ambiziosa e, se si vuole, con più modernità, perché priva di qualsiasi retroterra reazionario, se non addirittura confessionale.

E’ questo che dà spessore alla sua Italia barbara, ovvero classica, ovvero controriformista, dove il cattolicesimo non è una religione, ma “quel tanto che designa di potenza, di dignità, di magnificenza, di splendore intellettuale ed artistico”, tutt’uno con uno spirito di solidarietà e di universalità proprio della civiltà latina. In questa rilettura della storia d’Italia, più che di un “Risorgimento incompiuto”, la formula che Gioacchino Volpe userà per inserire il fascismo come atto finale del processo risorgimentale, Malaparte parlerà di un “Risorgimento tradito”, la frattura fra Stato e Popolo che ne era stata alla base. E’ un’idea che si porterà dietro dagli anni Venti agli anni Cinquanta, e con cui attraverserà fascismo e antifascismo, a testimonianza di una linearità di fondo. Ecco come la riassume ancora nel 1954 dalle colonne del settimanale “Tempo”: “Tutti i mali della vita italiana nascono non già dal popolo, ma dallo Stato. Perché non è vero che ogni popolo ha lo Stato che si merita: è infatti lo Stato che fa il popolo, non il popolo che fa lo Stato. A uno Stato che sperpera i denari del popolo, corrisponde un popolo che cerca di eludere il fisco. A uno Stato che avvilisce e impaurisce i cittadini, corrispondono cattivi cittadini e cattivi soldati (…). Quando Massimo d’Azeglio disse: ‘Fatta l’Italia bisogna far gli italiani’ disse una cosa cretina. Perché fatta l’Italia, bisognava far lo Stato italiano, unico strumento per far gli italiani, cioè per rifarli, per rieducarli, avviliti e corrotti com’erano da secoli di schiavitù e di cattiva amministrazione(…) Molta parte dell’attuale situazione di disagio prerivoluzionario in Italia nasce dalla spesso giustificata reazione popolare contro uno Stato assolutamente indegno di una nobile e civile nazione come L’Italia”. E ancora, un anno dopo: “Lo Stato italiano, benché si sia sempre solennemente proclamato liberale, democratico e costituzionale, non ha mai rappresentato e non rappresenta gli interessi della Nazione italiana, ma quelli di alcune oligarchie capitalistiche e politiche, associate a una casta burocratica che è la vera padrona dell’Italia.

Noi non saremo mai né libri né felici, vivremo sempre nelle condizioni di un popolo balcanico, saremo sempre ricattati, taglieggiati, umiliati, fino a quando non ci decideremo ad affrontare e a risolvere virilmente il problema fondamentale di una profonda, radicale, riforma dello Stato”. Settant’anni dopo, siamo ancora lì.

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