L'invasione è il primo libro pubblicato, nel 1967, da Ricardo Piglia, da molti considerato il maggiore scrittore argentino vivente, e ora per la prima volta tradotto in italiano da Enrico Leon per le edizioni Sur. (Ricardo Piglia, L'invasione , Sur, pagg. 187, euro 15).
Ai dieci racconti dell'edizione originale, nella nuova edizione data alle stampa nel 2006, quasi quarant'anni dopo, Piglia ne aggiunge altri cinque. «Se mi decido a ripubblicare questi racconti» scrive l'autore nella prefazione «è perché non ci trovo troppe differenze coi libri che ho scritto in seguito. Ho riletto e revisionato più volte i dieci racconti dell'edizione originale. In generale si è trattato soprattutto di tagli e soppressioni, perché - come diceva Hemingway - tutto ciò che possiamo togliere da un racconto lo migliorerà». E davvero si tratta di racconti levigati come pietre raccolte dal letto di un fiume, caratterizzati da una lingua di limpida esattezza, soffice e dura al tempo stesso. Tra tutti, il più bello è forse Un pesce nel ghiaccio , dedicato alla figura di Cesare Pavese. Un racconto nel quale il protagonista, Emilio Renzi (che ritroveremo in altre sue storie successive), sbarca in Italia con una borsa di studio per approfondire l'opera del grande scrittore piemontese («Pavese aveva scritto uno dei migliori diari mai esistiti… perché si era ucciso»). E anche per cercare di comprendere le ragioni del suo suicidio («Renzi pensava al suicidio di Pavese come a un crimine che bisognava risolvere»). «Io sto bene, come un pesce nel ghiaccio» aveva scritto l'autore de La luna e i falò alla sorella pochi giorni prima di togliersi la vita. Come chi è già morto dentro ma ancora tenta di conservare una parvenza di vita. Abbandonato dalla sua amante, Constance Dowling, attrice nordamericana giunta in Italia con la sorella di Doris, che aveva recitato in Riso amaro , Pavese ricomincia a pensare alla morte. V errà la morte e avrà i tuoi occhi così intitola una poesia dedicata a lei. E nel suo Diar io scrive: «Pagherei a peso d'oro un assassino che mi accoltellasse nel sonno». Non solo rovelli esistenziali, dunque; ma anche e soprattutto difficoltà con l'altro sesso. «Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo» scrive poche settimane prima di morire a Romilda Bollati, sorella dell'editore Giulio Bollati, conosciuta durante una fugace vacanza a Bocca di Magra, in Liguria. Anche questo amore è di brevissima durata.
Capire le donne non è facile, ammette Piglia. Quelli che le capiscono scrivono libri molto eleganti: Flaubert, Henry James. Quelli che non le capiscono, scrivono libri caotici: Melville, Malcolm Lowry. «Capire le donne. Pavese non ne era capace» conclude. Per poi ricordare che lo stesso Pavese, ne Il mestiere di vivere , aveva annotato: «Bisogna diventare più donna». Ed ecco dunque che Piglia fa dire al suo personaggio: «Se fosse diventato più donna, si sarebbe salvato. Nella vita cercava la forma; da questo si capisce anche il titolo del Diario (e il suo fallimento). Aveva solo imparato a scrivere».
Tuttavia togliersi la vita non è facile. «Sembrava facile, a pensarci» ammette Pavese. «Eppure donnette l'hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio… Non parole, un gesto. Non scriverò più».
Kafka, ricorda Piglia, insoddisfatto del suo lavoro di scrittore, progetta di dare tutto alle fiamme. Decide di non scrivere più e invece ogni volta ricomincia; è forse questo a tenerlo in vita. Chi decide di distruggere tutta la sua opera non ha bisogno di uccidersi. Kafka si sentiva uno scrittore fallito e questo lo salvò. Pavese, invece, pensava di essere un re nella sua professione. Per questo si suicidò. Aveva lasciato il Diario perfettamente ordinato, pronto per essere pubblicato. Se l'avesse bruciato, forse non si sarebbe ucciso. Questa la tesi di Piglia. Sentiva di essere arrivato al capolinea («In fondo, tu scrivi per essere come morto, per parlare fuori dal tempo, per farti a tutti ricordo», scrisse nel Diario). La sua missione terrena era compiuta. Ora poteva farla finita. Ed entrare nel pantheon dei letterati. «Come Cortés, mi sono bruciato dietro le navi… Ora non scriverò più» aveva annunciato in una lettera indirizzata all'amico Lajolo il giorno prima di togliersi la vita (e da lui ricevuta due giorni dopo la sua morte). «Farò il mio viaggio nel regno dei morti». E, difatti, non appena prende la decisione di smettere di scrivere, non trova più ragioni per restare in vita.
La notte di sabato 26 agosto 1950, in una camera dell'albergo Roma in piazza Carlo Felice a Torino, Cesare Pavese si deciderà a compiere quell'ultimo passo.
Verrà ritrovato la sera successiva da un inserviente dell'albergo decisosi a forzare l'ingresso dopo aver bussato ripetutamente: disteso sul letto, vestito di tutto punto; ma senza scarpe. Sul comò, dieci bustine di sonnifero svuotate. Della cenere sul davanzale della finestra. E alcuni fogli bruciati. Chissà in seguito a quale ultimo dubbio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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