Alcuni vandali, mercoledì, hanno deturpato con lo spray giallo la «vagina della regina» esposta alla reggia di Versailles. L'opera, più opportunamente «opera» con le virgolette, un enorme tubo di ferro lungo 60 metri e alto 10, è dell'artista anglo-indiano Anish Kapoor, fra i massimi esponenti dell'arte concettuale. Suoi lavori tipici sono superfici specchianti che riflettono in modo distorto lo spazio circostante, oppure buchi nei pavimenti e nei muri che suscitano, in virtù del modo con cui vengono utilizzati i pigmenti che li colorano, un effetto trompe-l'oile sembrando non avere una fine tangibile e dentro i quali lo sguardo vaga e si perde. Per il progetto di Versailles, che da qualche anno si è aperta all'arte contemporanea, Kapoor ha pensato appunto a una lunghissima vagina. Per l'interno del palazzo, invece, ha preferito più modestamente un piccolo cannone che spara cera rossa su un muro bianco, e dovrebbe ricordare un fallo che eiacula sangue. Un'installazione «ambiziosa», egli stesso ha spiegato, proprio per la difficoltà di «mettere in dialogo i grandi giardini con le sculture». Per il momento, nessuno ha ancora reclamato l'atto vandalico che ha suscitato unanime «indignazione» proprio perché - parole degli amministratori locali - si tratterebbe di un inaccettabile «attacco alla libertà di espressione» e non si può soggiacere «alla visione oscurantista di certe persone».
L'utilizzo retorico della locuzione «libertà di espressione» è un escamotage tipico del politicamente corretto che mette al riparo l'arte contemporanea da qualsiasi possibilità di critica. Benché in termini di logica, dovrebbe esistere anche una residuale liberta di «vandalismo» da parte degli spettatori, specie in caso di eco-mostri inutilmente provocatori. Se l'artista contemporaneo studia i propri lavori in base alla comunicazione che ne può derivare, e in questo senso assomiglia a un terrorista che bada non solo all'aspetto criminoso ma al risultato simbolico del proprio atto, il rapporto con il pubblico e i mass media diventa essenziale sia nella riuscita sia nel fallimento dell'opera. E fa parte del gioco che nell'endiade produttore/fruitore siano tollerati perfino gli sconfinamenti, da un lato di buon gusto, dall'altro di sana intolleranza.
Quando questo Natale, sempre in Francia, a Parigi, in place Vendôme, uno dei luoghi più esclusivi del mondo, aveva fatto capolino un enorme abete verde gonfiabile, opera di Paul MacCharthy, in verità un gigantesco butt plug (un dilatatore anale) pochi si erano lamentati se, notte tempo, un solerte cittadino aveva semplicemente fatto afflosciare l'orribile gigantesco sex toy. E il residuale buon gusto dei parigini ne aveva impedito una ulteriore gonfiatura.
Certo, lo sfregio della bellezza e della memoria contenuta nei beni culturali è percepibile subito, di primo acchito, come incivile, si pensi alla distruzione dei Buddha di Bamiyan da parte dei talebani o, più recente, lo scempio della Barcaccia in piazza di Spagna per mano di un gruppo di hooligans olandesi; mentre la distinzione tra vandalismo - lecita umana resistenza - e meta-arte è alquanto labile soprattutto nel contemporaneo più trash.
Qualche anno fa Vladimir Umanets, se-dicente inventore del movimento «yellowism» (guarda caso ritorna il giallo), aveva sfregiato un Rothko firmandolo col proprio nome e sostenendo di aver fatto un'operazione alla Duchamp che è mondialmente celebre per aver rovesciato un orinatoio marchiandolo con uno pseudonimo. Umanets si era lucidamente difeso dicendo che l'opera in questione avrebbe assunto nel tempo un valore maggiore. E che dire dell'«anartista» di origini domenicane Maximo Caminero che al Perez Art Museum di Miami in Florida aveva distrutto volontariamente un pezzo del cinese Ai Weiwei per protestare contro l'esterofilia dei musei americani? E ancora: chi non ricorda, il «giardiniere» che si era permesso di segare i rami dell'albero in pubblica piazza milanese ai quali Maurizio Cattelan aveva impiccato alcuni bambocci a forma di bambino con il risultato, uno di rompersi una gamba (raccontano le leggende), due di dare universale notorietà all'installazione del fenomeno italiano non ancora assunto nell'empireo dell'art system?
Meglio allora la contro-provocazione: quando Paul McCarthy, sempre lui, in occasione della Biennale di Carrara espose in nel centro città escrementi giganti in travertino, una decina di tonnellate in tutto, un gruppo di buontemponi organizzò una operazione meta concettuale affiancando ai mega stronzi una mega scopa con relativa paletta. Purtroppo col paradosso che mentre la «cagata» di McCharthy fu salutata come un colpo di genio, la surreale risposta degli anonimi venne guardata dai solerti organizzatori con sommo disgusto e cancellata all'istante.
Gli esempi fatti rimandano alla possibilità sempre più labile di definire l'opera d'arte che non è più un oggetto bello, né fatto bene, anzi che spesso rimanda all'orrido, all'insensato, alla provocazione, meglio se nel campo della religione e del sesso, meglio ancora se utilizza materiale pornografico o scatologico.
Di fronte ai manufatti più stravaganti, prodotti apposta per urtare le anime belle, all'indifferenza dei più fa da contraltare il ligio senso civico di pochi che, in nome della Bellezza, deturpano le schifezze. Una battaglia tra titani: quella che vede contrapposti dissacratori di professione e moralizzatori d'occasione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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