Panda-editor? Scherzando ma non troppo potremmo chiamarli così. Il mercato cambia, la struttura delle case editrici anche, e questa figura professionale rischia l’estinzione. O quantomeno il pre-pensionamento. Eppure, come si evince dalla ricognizione di Vittorio Spinazzola nella grande narrativa di intrattenimento italiana degli ultimi tempi (Alte tirature, il Saggiatore, pagg. 192, euro 19,50) scovare un bestseller e farlo crescere resta l’ancora di salvezza economica di quasi tutte le case editrici. È possibile farlo senza un editor? Parrebbe anche di sì.
La lettura dei manoscritti? Ormai la fanno gli agenti letterari, con tanto di doppia e tripla scheda di valutazione, per poi andare all’attacco di questa o quella casa editrice cui vendere i diritti. L’editing di un testo? Idem: le agguerrite agenzie letterarie in stile anglosassone nate negli ultimi anni in Italia offrono questo servizio. La compravendita dei diritti? Ci sono le fiere del libro internazionali: pochi giorni di aste frenetiche e ci si porta a casa (si spera) i bestseller per il prossimo anno. Non bastasse, il self publishing digitale sta mettendo a rischio il compito dell’editor: la selezione di cosa pubblicare e cosa no. E così, dopo aver detto addio a Vittorini e Pavese, maestri di editoria negli anni ’50 e ’60, a Mario Spagnol, Giancarlo Bonacina e Vittorio di Giuro, loro equivalenti commerciali negli ’80 e ’90 – l’epoca delle elevatissime tirature di Wilbur Smith e John Grisham per intenderci – dobbiamo dire addio alla figura dell’editor?
«Direi di no – afferma Giulia Ichino, erede di Antonio Franchini alla narrativa italiana presso Mondadori – perché l’editor è alleato del management della casa editrice e allo stesso tempo avvocato dell’autore, in particolare quello italiano, di cui ascolta desideri e perplessità e a cui sta a fianco durante il cammino per arrivare a un libro finito. L’editor è cerniera. Fa tornare i conti: di denaro, ma anche quelli creativi e letterari. Legge un manoscritto, magari sottoposto da un agente, e si immagina già la copertina, quali giornalisti ne parleranno, quali canali di distribuzione privilegiare, spesso progetta la diffusione dei suoi contenuti attraverso il web o media audiovisivi in una prospettiva più aperta rispetto a quella del semplice “libro di carta”. Si tratta di un lavoro diverso da quello degli agenti, che richiede di avere alle spalle la forza di una casa editrice. Il self publishing? Una notte dove tutte le vacche sono nere non ha mai funzionato: affinché il libro diventi patrimonio di tutti occorre un percorso diverso. Sono altre le figure editoriali messe a rischio dalla rivoluzione digitale: quelle strettamente legate alla stampa, ai controlli tecnici, alla perizia redazionale, oppure gli uffici stampa di tipo tradizionale, che devono misurarsi con le nuove reti di comunicazione globale».
Sappiamo, però, di alcuni editor che nel corso di recenti ristrutturazioni editoriali si sono visti trasferire a mansioni di redazione, per contenere i costi (e parliamo di case editrici medio-grandi). «Certo, l’editor è una figura in difficoltà – ci dice Jacopo de Michelis, responsabile della narrativa a Marsilio – ma perché il mercato è in crisi e l’editoria con l’avvento del digitale è in una fase di radicale trasformazione. Non mi sento un panda-editor, però avverto un’imminente selezione della specie. Alcune politiche editoriali low cost che oggi vanno per la maggiore rischiano di rivelarsi dannose sul medio-lungo termine, e la tentazione di Amazon di proporsi come editore in proprio può porre problemi. Tuttavia dove c’è rischio c’è opportunità: a patto di sapersi adattare e rinnovare. Chi selezionerà i testi migliori tra quelli di Amazon? Chi curerà alcuni titoli specifici capaci di vendere molto bene solo se seguiti? Tra qualche anno il lavoro dell’editor potrebbe essere molto diverso da come è oggi, ma non per questo meno fondamentale e appassionante».
A salvare l’editor sarà forse la sua funzione personal trainer per autori promettenti, di talent scout girovago: «Il nostro lavoro – racconta Michele Rossi, che per Rizzoli ha scoperto Silvia Avallone (500mila copie vendute in 22 Paesi e film in lavorazione da Acciaio) – è il territorio dell’informale. Ho scoperto Capo Scirocco di Emanuela Abbadessa, che uscirà nel 2013, attraverso una segnalazione di un amico giornalista; sono stato a fianco di Daniela Piazza durante la stesura, durata anni, de Il segreto della cattedrale, romanzo alla Ken Follett sul Duomo di Milano; Giulia Ottaviano, che uscirà in autunno con L’amore quando tutto crolla, l’ho scoperta al festival Esordire, organizzato all’epoca dalla Scuola Holden, Giorgio Vasta e Marco Peano. Oggi il mercato ti chiede molti esordienti di qualità e in questo segmento l’editor la fa ancora da padrone. I lettori chiedono autorialità: l’effetto García Márquez o Milan Kundera. Chi garantisce tutto questo se non l’editor? Certo, circolano romanzoni a 9,99 euro che però vengono ricordati per il titolo, non per l’autore. Volessimo andare in quella direzione, basterebbe un ufficio acquisti».
«Rimane – dice Antonio Franchini, storico talent scout di bestseller per Mondadori – che l’editor qui da noi è anche colui che acquista letteralmente i titoli: acquiring editor lo chiamano negli Stati Uniti, per differenziarlo dal copy editor, che lavora sui testi. Abbiamo una responsabilità economica. Detto questo, è vero: c’è stato Vittorini con i suoi “Gettoni”, per esempio, in una situazione particolare come l’Einaudi del dopoguerra, così come ci sono stati Giancarlo Bonacina e Alcide Paolini in Mondadori, uno per gli stranieri e uno per gli italiani, e ricordo che all’epoca avevamo bestseller come Bassani, Cassola e Soldati, man mano emarginati dal Gruppo 63. Il che portò a un cambio di rotta, direi verso l’estero. Un testo che arrivava in Mondadori negli anni ’60 riceveva tre letture e oggi ha alte possibilità di non essere intercettato. Ma fare l’editor oggi è una cosa molto diversa. Col digitale il libro ha perso in parte la propria aura e la perderà sempre di più. Fino in fondo? Sicuramente no.
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