Sul palco, alla Scala, c'è una fabbrica abbandonata, un capannone dismesso che sembra della Mapei-cementi, una periferia degradata... Fuori, nel Paese, ci sono fabbriche chiuse, capannoni vuoti, periferie lasciate a se stesse... Sul palco la tristezza di ferri da stiro, tute da ginnastica e spazzoloni. L'estetica del Mocio vileda. Fuori le preoccupazioni di sindacati, centri sociali, poliziotti in assetto anti-sommossa. La paura del manganello. Sul palco ingiustizie, soprusi, diritti negati. Fuori proteste, urla, gente che chiede diritti.
Ciò che viene rappresentato sopra il palcoscenico, è sempre metafora di ciò che accade fuori. In tutto il teatro, in tutti i teatri. Immaginiamoci la Scala, la sera della Prima.
E in una sera della Prima in cui tutti guardano gli artisti sul palco pensando a se stessi in sala, le due ore del Fidelio sono la partitura su cui leggere - se non le contraddizioni del Paese - di certo la disperata ricerca della propria identità del massimo teatro italiano, oggi in delicata fase di transizione. Una rivoluzione?
Ecco allora che la storia (contro)rivoluzionaria di una giovane donna con un nome maschile, costretta a travestirsi per riavere ciò che è suo; un uomo-eroe che non salva la sua amata, ma da lei viene salvato; quattro overture possibili tra cui scegliere, ognuna perfetta, ognuna criticabile; un Barenboim alla sua ultima direzione musicale scaligera, con troppi rimpianti alle spalle per quello che avrebbe voluto fare e non ha fatto e troppi progetti davanti a sé per preoccuparsi seriamente del presente; due sovrintendenti, uno uscente e uno entrante, che si consegnano la staffetta più polemica della storia recente del teatro; e un cast germanico che ruba la scena agli italiani, in un eterno confronto, agonistico e culturale, tra Italia e Germania; tutto ciò rappresenta difficoltà e ambiguità di una Scala - e di un Paese - che non sa più chi è, e cosa scegliere. Una Scala di passaggio.
Tra una settimana ci sarà un nuovo Cda, e se non cambierà tutto, cambierà molto. Il direttore Daniel Barenboim - che alla prima del 2010 suscitò un polverone leggendo l'articolo 9 della (nostra) Costituzione sul valore della Cultura e nel 2012 si dimenticò di suonare il (nostro) Inno - saluta e se ne va: dopo nove anni gli succede Riccardo Chailly, il nuovo milanesissimo capitano musicale, che firmerà la Turandot di Puccini aprendo il 1° maggio la Scala-Expo, che sarà la vera Prima del 2015. Poi c'è il nuovo sovrintendente, l'austriaco Alexander Pereira, che stasera fa gli onori di casa per un Fidelio che non ha scelto lui, ma il suo predecessore, Stéphan Lissner, il quale ha lasciato la "sua" Scala giovedì, quando ha presenziato la «primina» degli under 30. Così ha detto addio. Oddio. E adesso? Che fine faranno le vedove Lissner, le Signore di sala e gli intellettuali da salotto che gli facevano da corte? Che fine faranno i milanesi-chic, le Sotis e la Aspesi, per la quale lo scorso anno si aprirono, e solo per lei, con tanto di taxi della Scala a far da chauffeur, le porte della «primina», altrimenti vietata ai giornalisti. E ieri sera - ecco la vera rivoluzione del teatro - non era neppure in sala stampa, di sopra.
Intanto, di sotto, nel teatro, scenografie povere, tagliate dalla spending review. Fuori i poveri, tagliati fuori da tutto. È una Prima poco glamour, con pochi politici, pochi vip da tappeto rosso, ma c'è il gotha dell'economia e della finanza, da Passera a Squinzi, e avanti a tutti, con classe, Christine Lagarde. E che sia lei, il direttore del Fondo Monetario Internazionale, l'ospite più atteso alla Scala, che una volta accoglieva Nobel e artisti, è il sintomo del cambiamento.
Anche le sciure che non saltano mai una Prima, come le Marzotto, le Brivio Sforza, le Falck, le Gnutti Beretta, quest'anno sono tutte a Saint Moritz per il weekend lungo dell'Immacolata. E hanno lasciato qui la Riccobono.
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