Ci sono giornalisti al soldo di un padrone, e giornalisti che scrivono sotto due bandiere.
Ma chi furono, e cosa scrissero, le grandi firme fiorite professionalmente sotto il fascismo - che difesero e incensarono - e che poi si riciclarono nel dopoguerra in maniera altrettanto brillante e vibrante dentro la grande stampa democratica? Una domanda alla quale ancora di recente hanno in parte risposto Pierluigi Battista con Cancellare le tracce nel 2007 e Mirella Serri con I redenti nel 2009. Due libri che raccontano nei dettagli la «doppia vita» di tanti intellettuali italiani, prima organici alle istituzioni culturali fasciste e poi, dal ’43-45, convinti sostenitori degli ideali e dei valori della nuova Italia democratica.
Ora si aggiunge un altro tassello al complicato puzzle dei rapporti tra intellighenzia e Ventennio: Giornalisti di regime. La stampa italiana tra fascismo e antifascismo, 1922-1948 di Pierluigi Allotti (Carocci). È una storia interessante, e documentatissima, delle carriere costruite dentro le redazioni più importanti d’Italia da quanti prima (improvvisamente, con l’instaurazione del regime) scrissero prose encomiastiche al seguito del Duce, esaltate corrispondenze di guerra ed editoriali inneggianti l’Italia di Mussolini fino al giorno prima del crollo. E poi, all’indomani della caduta del fascismo, spesso senza neppure una breve pausa di riflessione (e senza epurazioni), ripresero a scrivere sulle maggiori testate nazionali, dal Corriere della sera al Messaggero alla Stampa, senza mai ricordare, pubblicamente, il proprio passato in camicia nera ma elaborando, privatamente, una «complessa» autoassoluzione. E spesso anzi contribuendo coi loro nuovi scritti al processo di banalizzazione e «defascistizzazione» del fascismo, per ripulirsi curriculum e coscienza.
Come, ad esempio, Mario Missiroli, Giovanni Ansaldo, Paolo Monelli... (i «padri»), e poi Vittorio Gorresio, Indro Montanelli, Virgilio Lilli, Guido Piovene, Arrigo Benedetti, Luigi Barzini jr, Vitaliano Brancati... (i «fratelli maggiori»). Alcuni dei quali, come Lilli o Piovene, o lo stesso Giorgio Bocca, parteciparono anche alle peggiori campagne di stampa antisemite.
Tutti ottimi giornalisti, tutti smemorati quando si è trattato di fare i conti coi loro vent’anni e col Ventennio d’Italia.
Come ottima giornalista, ma smemorata, si rivela la firma di Repubblica che ieri, recensendo il libro di Pierluigi Allotti sul proprio giornale, si è inopinatamente dimenticata di citare, tra tanti altri, qualche collega della sua stessa redazione: giornalisti con la schiena dritta nell’Italia democratica e col braccio teso in quella littoria. Curiosamente è lo stesso Allotti che sceglie di sorvolare sul lavoro di alcuni giornalisti, che pure cita, come Eugenio Scalfari, o Enzo Forcella, o Giorgio Bocca (nome quest’ultimo che compare nell’indice, scompare nella prima bozza del libro forse cancellata post mortem da una mano pietosa, e poi riappare in quella definitiva...) perché «essendo nati negli anni Venti, mossero i primi passi nel giornalismo nel corso della Seconda guerra mondiale». Meno curiosamente, invece, la giornalista di Repubblica li salta a pie’ pari, come gli ostacoli ai Littoriali.
Peccato, perché se l’autore del libro e l’autrice del pezzo avessero invece compiuto questo utile esercizio di ricerca, si sarebbe potuto completare il quadro dei difficili e viscidi rapporti tra cultura e potere a cavallo tra le due Italie, quella fascista e quella repubblicana. E della Repubblica, soprattutto. Dove, dalla metà degli anni Settanta, Eugenio Scalfari portò mezza redazione del suo vecchio giornale, il settimanale Roma Fascista, l’organo ufficiale del Guf. Qui - come ricorda Giancarlo Perna nella biografia non autorizzata Scalfari. Una vita per il potere del 1990 - il giovanissimo Eugenio scrisse a partire dal ’42, diventando caporedattore (prima di passare a un’altra rivista di regime, Nuovo Occidente), e qui lavoravano Enzo Forcella, poi editorialista di Repubblica; Ferruccio Troiani che sarà all’Europeo con Scalfari; Paolo Sylos Labini, futuro economista e firma di Repubblica; e persino Luciano Salce e Massino Franciosa, registi cinematografici di sinistra degli anni ’60... «Io adoravo la divisa fascista - ricordò lo stesso Scalfari in un’intervista rilasciata a Pietrangelo Buttafuco per Il Foglio nel 2008 - Era molto elegante la tenuta. Avevo la giacca, la sahariana, i pantaloni grigio verde a sbuffo alto, gli stivali, le losanghe sulle spalle, idem sulle maniche, con le stelline, quindi il fazzoletto azzurro e la camicia nera naturalmente». Naturalmente.
Per il resto, il saggio di Pierluigi Allotti è una sfilata in pompa magna del nostro più bel giornalismo, che non ebbe remore a passare, durante il fascismo, da posizioni magari dissenzienti a megafoni entusiasti del nuovo corso, e poi, esaurito l’inchiostro nella penna nera, a impugnare magari quella rossa. Sempre con ottimi voti e lauti stipendi. C’è Emilio Cecchi che per il Corriere della sera di Aldo Borelli, nel ’38, scrisse un reportage dagli Usa per dimostrare ai lettori italiani come razzismo e antisemitismo fossero presenti anche nella società americana.
C’è Mario Missiroli - futuro megadirettore del Corriere della sera dal 1952 al 1961 - che sul suo Messaggero nel ’38 firma (sotto pseudonimo) una recensione elogiativa del Contra judaeos di Telesio Interlandi. E ci poi tutti gli altri, gli Ansaldo, i Gorresio, i Montanelli... Il fior fiore, insomma, delle due Italie.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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