Venere, divinità in terra che da millenni seduce gli umani e l’arte

Nell’antichità era una dea, poi il rigore romano e la religione l’hanno "nascosta". Ma il suo fascino conquista da sempre viaggiatori, scultori e scrittori

Venere, divinità in terra che da millenni seduce gli umani e l’arte

«Un quarto di statue e un quarto di preti» era stata la definizione di Roma data dal presidente de Brosses ai tempi del Grand Tour settecentesco. L'Italia, scriverà lord Byron un secolo dopo, era «il giardino del Mondo, la Patria di tutto ciò che l'Arte dà e che la natura concede» e insomma mai come a cavallo fra quei due secoli e poi lungo l'Ottocento artisti e viaggiatori cercarono nella penisola non solo le tracce e gli splendori della classicità, ma la chiave per comprenderne l'essenza, il miracoloso equilibrio fra forma e contenuto che l'aveva resa possibile. Shelley pensò di averla trovata nello scambio perpetuo con il mondo naturale: teatri aperti ai monti e al cielo, templi come boschi sacri, fra le cui colonne luce e vento agivano indisturbati, campagne i cui profumi arricchivano le città. Le guerre e le conquiste di Roma, constatava amareggiato, avevano inferto il primo colpo mortale a quell'antico mondo di credenze, ma era stato il cristianesimo a dargli quello di grazia provocando la fuga delle divinità dal mondo.

Di queste divinità, quella che aveva più sedotto e più turbato era stata Venere, dea della bellezza e dea dell'amore di cui ora Attilio Brilli traccia una suggestiva ricostruzione iconografica nel suo Venere seduttrice (il Mulino, pagg. 180, euro 15). In quell'Ottocento da cui siamo partiti, e in cui la sensibilità moderna cercava di venire a patti con l'umanesimo e il culto del mondo classico che l'avevano preceduto, la Venere dei Medici, la Venere di Milo e la Venere Landolina spiccavano come fari. Se la prima era ancora una scoperta seicentesca, le altre due appartenevano di diritto a quell'età della razzie napoleoniche e poi della Restaurazione in cui il secolo XIX si era distinto e nel quale Canova aveva cercato di imporre il suo sigillo nel segno della continuità, di una traduzione viva e non di un'opaca copiatura: la sua Venere vincitrice affidava il compito di rendere eterno il passato dando ai tratti di Paolina Borghese quel nome così carico di storia e di mistero, una Venere che fosse al tempo stesso classica e moderna, eterna, appunto. Dopo di allora, impercettibilmente, ma costantemente la scultura cede il passo alla scrittura, nel senso che, come spiega bene Brilli, il tramonto dei canoni della classicità avvolge il mondo delle forme «nelle spire del pudore» e segna se non la fine la metamorfosi di quella che era stata la «sindrome di Pigmalione», ovverosia «il desiderio istintivo di suscitare una qualche animazione in quelle forme marmoree». Sempre più quel desiderio si trasferisce dal marmo alla pagina, lo scrittore che si fa scultore.

Gli esempi sono innumerevoli, da Flaubert a Maupassant, a Gautier, per limitarsi ai soli francesi. Se il primo, di fronte al canoviano Amore e Psiche, si scopre ad avervi impresso «il primo bacio sensuale da lungo tempo», il secondo, davanti alla Venere Landolina ritrova «un corpo di donna che esprime tutta la reale poesia delle carezze, carne cedevole e bianca, tonda e soda e deliziosa sotto la stretta». Osserva in proposito Brilli che nel congedarsi con un ultimo sguardo di ammirazione da quella Venere, Maupassant dice di essere tornato «con il pensiero all'ariete bronzeo» visto giorni prima al museo di Palermo, ovvero a un bronzo che «racchiude in sé tutta la panica animalità del mondo»... L'esuberanza selvaggia di quest'ultimo e la «carnale disponibilità della Venere» illuminano come non mai la duplicità dello scrittore, «il toro triste della Normandia» era stato soprannominato, il cui prorompente vitalismo era tutt'uno con una vitalità devastata dalla sifilide contratta in gioventù e che poi ne avrebbe rovinato corpo e mente, l'angoscia spettrale, dice Brilli sula scorta di Savinio, che «è tipica della sua narrativa».

Ma è probabilmente Gautier quello che coglie meglio il lato nascosto delle cose, ovvero la sopravvivenza di Venere, una volta cacciata dall'Olimpo così come dal proprio simulacro terrestre, sotto forma di creatura avvincente sì, ma fatalmente demoniaca. Mentre un tempo, spiega Brilli, «il viaggiatore si poneva dinanzi alla Venere dei Medici o alle sue consorelle con l'atteggiamento più o meno manifesto di colui che vorrebbe richiamare in vita quegli inerti simulacri, nella simulazione letteraria sono quei simulacri che tornati fittiziamente in vita, esercitano un potere nefasto deleterio, se non letale nei contesti ambientali con i quali interagiscono».

Nel racconto fantastico Arria Marcella, il giovane Octavien, che «talvolta si innamorava delle statue» e che avrebbe voluto sfracellarsi «sul seno di marmo» della Venere di Milo, ritrova nella villa di Arrio Diomede a Pompei l'impronta della Venere Arria Marcella vista nel museo di Capodimonte. La ritrova al punto tale da vederla viva nelle strade, «le punte dei seni orgogliosi che sollevavano la tunica color rosa malva». È il mondo scomparso che ritorna dall'esilio perpetuo impostole dalla nuova religione, ma è un ritorno impossibile: al rintocco delle campane, il suo corpo si muterà in ossa combuste e cenere, in mezzo alla quale resteranno soltanto luccicanti gioielli...

In una foto degli anni Cinquanta di David Seymour, la statua di Paolina Borghese, presa di spalle, fronteggia lo sguardo imperturbabile di Bernard Berenson, elegantemente vestito e con tanto di cappello, emblema di una critica novecentesca erudita e insieme gelida. Gli fa da contraltare scritto il delizioso Paolina fatti in là del rondista Antonio Baldini. «Non c'era parte del braccio che sotto le mie dita non rispondesse come vera carne. E quando le posai la mano sul capo, i riccioli mi piovvero fra le dita dalla nuca rotonda».

Fra contemplazione e immedesimazione, anche il Novecento cerca di far fronte alla seduzione di Venere e non a caso Brilli affida al Pound dei Pisan Cantos il compito di chiudere un ciclo

nel nome di una possibile rinascita spirituale. Qui è la Venere del Botticelli a ricordare che «beauty is difficult», il bello è difficile, ma anche che «gli dei sono ancora fra noi», a saperli cercare, a volerli trovare.

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