"Curiosità, memoria, fatica: ecco la mente universale"

Lo studioso di Cambridge racconta i "poliedrici", da Alberto Magno a Leonardo: "Ci affascinano perché appaiono sovrumani"

"Curiosità, memoria, fatica: ecco la mente universale"

Peter Burke ha studiato storia a Oxford molti anni fa, quando in cattedra c'erano Gilbert Ryle e J.R.R. Tolkien. È diventato uno dei massimi esperti del Rinascimento, ha scritto numerosi saggi tradotti in tutto il mondo e, dopo avere insegnato a lungo all'Università del Sussex, oggi è professore emerito di Storia culturale a Cambridge. È grazie a tutto questo che ha scritto un saggio come Il genio universale. Una storia culturale da Leonardo da Vinci a Susan Sontag (Hoepli, pagg. 320, euro 25): una passeggiata fra le menti e le idee di cinquecento «poliedrici» o «uomini universali», da Marziano Capella a Keynes, da Francesco Bacone a Goethe, da Johann Joachim Becher a Newton. Un viaggio condotto all'insegna di un esergo che è un programma culturale decisamente inattuale: «La specializzazione va bene per gli insetti» (citazione da Robert Heinlein).

Professor Burke, chi è davvero un genio?

«Distinguo fra il genio e il poliedrico. Quest'ultimo è una persona che padroneggia varie discipline intellettuali, laddove varie erano numerose fino al secolo scorso, dato che l'esplosione della conoscenza ha reso la poliedricità sempre più difficile. Genio è un termine più adatto alle stelle, agli esempi più spettacolari di poliedricità».

Perché il genio ci affascina?

«Alcune conquiste sono così straordinarie da sembrare sovrumane... Non penso solo a una manciata di persone come Leonardo, Leibniz o Alexander von Humboldt, ma anche ad artisti come Michelangelo o Bernini».

La sua formazione ha favorito l'attrazione per l'argomento?

«Ho avuto una buona formazione convenzionale dai gesuiti a Oxford, ma ho sempre coltivato interessi molteplici. Un giorno ho visto la pubblicità di una nuova università, nel Sussex, che offriva corsi interdisciplinari: mi sono candidato e ho ottenuto il posto...»

Che cosa ricorda di Ryle e Tolkien?

«Andavo ai loro seminari, perché ammiravo molto Il concetto di mente di Ryle e Lo hobbit di Tolkien. Ryle sembrava piuttosto autoritario: iniziava le lezioni dicendo che, se avesse visto qualcuno prendere appunti, lo avrebbe sbattuto fuori per disattenzione. Tolkien era più simpatico: faceva lezione sul Medioevo, sulla magia, e non diceva mai esplicitamente che la magia funzionasse ma, in qualche modo, lo sottintendeva. Era un modo molto sottile di persuadere un pubblico del Novecento a prendere seriamente delle credenze medievali».

Come l'ha influenzata?

«Tolkien ha avuto su di me un'influenza simile alla scoperta dell'antropologia, a Oxford. La lezione è stata quella di prendere le altre culture seriamente: se fossi nato da un'altra parte, avrei dato per scontate convinzioni diverse».

Nel suo libro ci sono 500 «geni». Come facevano a conoscere così tante cose?

«È una delle grandi domande del libro. Credo che, per diventare un poliedrico, come qualcuno spera ancora oggi, servano almeno una bella dose di curiosità, un enorme potere di concentrazione e una memoria precisissima. Devi anche essere un maniaco del lavoro. E poi serve una grande immaginazione, per cogliere le somiglianze fra problemi e soluzioni in discipline diverse».

Si dorme poco?

«Non necessariamente. Anche se alcuni poliedrici celebri dormivano quattro ore a notte, come Madame du Châtelet».

Tre geni?

«Leonardo, Leibniz e Alexander von Humboldt. Combinavano ampiezza e profondità. E hanno fatto scoperte originali».

Che cos'è la «sindrome di Leonardo»?

«Ho coniato questa espressione perché Leonardo iniziò molti progetti che poi non portò a termine, il che danneggiò la sua reputazione come artista, all'epoca, e fece anche sì che le sue conquiste da scienziato, che lasciò inedite, fossero dimenticate per secoli. Molte delle persone di cui scrivo, come lui, non finivano ciò che intraprendevano; perciò ho ipotizzato che sia una specie di patologia dei poliedrici».

Esiste un'«età dell'oro» del genio universale?

«Credo che il XVII e XVIII secolo in Europa siano stati un lungo momento di equilibrio fra l'aumento di informazioni e la capacità di alcuni individui di digerirle e trasformarle in conoscenza».

Nel libro accenna anche alle origini antiche del computer...

«Lullo, Leibniz e altri studiosi erano molto interessati alle macchine per archiviare e recuperare conoscenze. Insomma l'idea del computer è vecchia: ci sono voluti secoli per trovare i mezzi per realizzarla».

C'è una parte di leggenda in queste figure?

«C'è un mito del genio, dell'eroe intellettuale. Nel Medioevo, un poliedrico importante fu Gerberto di Aurillac, che diventò Papa: si diceva che il suo sapere fosse così vasto perché, grazie al diavolo, nel suo studio aveva una testa di ottone che rispondeva a tutte le sue domande. Come Alexa oggi...»

Altri «miti»?

«Un altro mito di oggi è l'uomo che sa tutto. Forse un uomo del genere esisteva nell'Età della pietra ma, da allora, è improbabile che qualcuno padroneggi tutti i tipi di conoscenza in una cultura».

Con meno conoscenze è «più facile»?

«Certo, in passato la poliedricità era quasi la norma, nel senso che la conoscenza accademica era limitata a un certo numero di persone che la possedevano: come Aristotele nell'antichità, o Alberto Magno nel Medioevo».

Il genio più sorprendente?

«Leonardo. Non è andato all'università e ha imparato da solo tutto quello che sapeva. Ha superato questo svantaggio; o, forse, è stato un vantaggio, dato che le università del suo tempo si preoccupavano di trasmettere la tradizione».

Oggi un genio universale può esistere?

«È sempre più difficile trovare dei poliedrici viventi. Uno ha la mia età, ed è Jared Diamond. Uno è morto da poco, James Lovelock. Comunque è difficile pensare a un vero poliedrico nato dopo il 1960. Spero di sbagliarmi...»

Che cosa dovremmo fare per non perdere queste capacità straordinarie?

«Due cose. Primo: ci serve un sistema di istruzione che non faccia specializzare troppo presto. Secondo: dobbiamo offrire ai poliedrici delle nicchie per sviluppare i loro talenti.

Una volta questi luoghi erano le università, ma oggi sono troppo specializzate. La società ha bisogno sia di generalisti, sia di specialisti: perciò bisogna nutrire anche i generalisti, offrendo loro la possibilità di studiare molteplici discipline».

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