D’Alema fa i giochi di prestigio per salvare l’Unione su Kabul

Alessandro M. Caprettini

da Roma

Sempre più compreso nel suo ruolo di ministro degli Esteri, Massimo D’Alema trova anche il tempo d’indossare i panni del mediatore nella disfida apertasi tra il duo Prodi-Parisi da un lato e la sinistra radicale dall’altro. In ballo c’è l’Afghanistan sul quale Prc, comunisti e Verdi reclamano un segnale di «discontinuità» mentre il ministro della Difesa s’era detto non sfavorevole a un aumento del nostro impegno militare.
Il muro contro muro, testimoniato dal tormentato rinvio del decreto di rifinanziamento delle nostre missioni militari all’estero (sono ben 28 in complesso), rischia di trascinare la maggioranza in una rissa. E dunque il presidente dei Ds si fa sotto per far sapere che l’impegno a Kabul merita rispetto, visto che si tratta di missione Nato con tanto di bollo di garanzia dell’Onu, ma che non vede il motivo di mandare più soldati, dato che nel caso quel che serve maggiormente sono aiuti economici. E non è tutto: D’Alema - intervistato da Repubblica - tiene a chiarire che se l’impegno in Afghanistan dev’esser mantenuto, la sinistra radicale deve ammettere che le cose sono decisamente cambiate da quando lui e Prodi stanno sovrintendendo alla politica estera italiana: «Stiamo davvero facendo qualcosa di sinistra...», assicura. E cita il deciso rifiuto agli americani di proseguire la missione in Irak, la ricerca di un ruolo nella vicenda iraniana, l’allargamento dei nostri orizzonti a India, Cina, America Latina e Mediterraneo, il ruolo decisivo che avremmo ripreso in Europa.
In poco più di un mese - giura il titolare della Farnesina - «abbiamo ripensato il ruolo internazionale dell’Italia!». Ci creda o no, si becca nel frattempo l’ironica reazione di Sandro Bondi che lo chiama «novello Talleyrand» e si complimenta per il fatto che «l’Italia si appresterebbe a svolgere un ruolo di cerniera, diplomatica ed economica, in tutte le direzioni nelle quali il genio politico e strategico dell’onorevole D’Alema è capace di esercitarsi». Né manca il coordinatore nazionale di Forza Italia di complimentarsi col ministro degli Esteri per la sua assicurazione che «il governo dev’essere autosufficiente in politica estera, e non reggersi sulla stampella dell’opposizione». Perché nel centrodestra, la sensazione è altra da quella dipinta da D’Alema. Il niet di Giordano al decreto ne è una prova. I maldipancia di verdi e comunisti gli fanno da rischioso contorno.
D’Alema giustifica le obiezioni col fatto che mai Rifondazione aveva votato per la missione in Afghanistan, assicurando poi che la logica di coalizione alla fine avrà il sopravvento. Ma anche ieri non son state poche le voci della sinistra radicale che son tornate a reclamare una inversione di rotta. Il sottosegretario all’Economia Paolo Cento (Verdi), ad esempio, ha ricordato come «in una stagione in cui è necessario ridurre le spese di Stato» non è assurdo reclamare «discontinuità», e dunque annuncio di «disimpegno progressivo», da un finanziamento di missioni militari che costano ben 1 miliardo di euro l’anno. Russo Spena (Rifondazione) mostra qualche spiraglio per via dell’annuncio di D’Alema di voler porre sul tavolo del G8 la questione afghana, ma anche lui reclama un segno di discontinuità.
Più decisi sulla via dell’opposizione al decreto - che dovrebbe arrivare alla Camera il 30 giugno - i giovani del Prc: martedì, giorno in cui i capigruppo del centrosinistra faranno il punto della situazione, hanno annunciato un sit-in davanti a palazzo Chigi perché, a loro dire, non solo Prodi, D’Alema e Parisi «hanno annunciato un allungamento nei tempi di una decisione già condivisa come il ritiro dall’Irak, ma si apprestano anche a confermare la nostra presenza in Afghanistan».
Insomma la partita resta aperta.

Anche se Marina Sereni, diessina e vice-presidente del gruppo dell’Ulivo alla Camera si dice certa che la mediazione la si troverà. «I colloqui di questi giorni - assicura - mi permettono di dire che se nessuno deve rinunciare ai propri principi, non c’è neanche nessuno che vuol venir meno agli impegni di maggioranza e di governo».

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