Alessandro M. Caprettini
da Roma
Se Romano Prodi ha preferito rifugiarsi in un banale «fermare il ciclo della violenza e riprendere il filo del negoziato», Massimo DAlema ieri è parso un vulcano in piena eruzione: ha insistito ripetutamente sullobiettivo «pace» che è in cima ai suoi pensieri, ha magnificato a tutto tondo la ripresa di ruolo internazionale dellItalia grazie al centro-sinistra, ha garantito il suo personale impegno a 360 gradi, ha di fatto invitato Damasco e Teheran alla trattativa. Svicolando invece sui rischi che la forza multinazionale, in seno alla quale conferma ci sarà una corposa partecipazione italiana, possa trovarsi a fare i conti con gli hezbollah e bacchettando Israele - dove ha annunciato che si recherà domenica - per la sua chiusura agli appelli allo stop ai combattimenti.
Nel day after del summit, il nostro ministro degli Esteri corre a informare il Parlamento (commissioni Esteri di Camera e Senato) sugli esiti della crisi libanese. Asciutto, ma con un pizzico forse eccessivo di glorificazione della posizione italiana, evita però riferimenti ai contrasti evidenziatisi nei colloqui (come le divergenze tra francesi e americani) e si guarda bene dal commentare come da più parti - i giornali europei in prima linea - si parli di fallimento. Giunge persino a negare che si sperasse davvero in un cessate il fuoco che in realtà proprio lui e Prodi avevano detto trattarsi del «primo obbiettivo» alla vigilia del summit.
Per DAlema si è trattato invece di «grande evento internazionale» nellambito di una azione politica del governo italiano «volta ad affermare un nostro ruolo dinamico» che fa segnare «un netto progresso della nostra collocazione rispetto al rischio marginalità» che sera già intravista «dopo la nostra esclusione dai colloqui sul nucleare iraniano».
Insomma lItalia prodiana, secondo il ministro degli Esteri, ha risalito la china. E se non ci sono stati risultati concreti questo si deve al fatto che a Roma non ci fossero «le parti in conflitto». «Ma anche qui qualche passo in avanti è stato compiuto», assicura con piglio deciso, senza peraltro approfondire di che si tratti.
Dove si va a questo punto? DAlema annuncia che a settembre, a margine dellassemblea generale dellOnu, chi era presente a Roma tornerà a riunirsi nel palazzo di vetro «per fare il punto della situazione». Auspica che nel frattempo in Libano cessino i combattimenti e torna a ripetere che la soluzione che si sta mettendo a punto è quella di una «forza multinazionale» da inviare sul confine libanese-israeliano. Non dice cosa dovrà fare il contingente che, ammette seguendo Chirac, dovrà essere «consistente». Ci tiene però ad assicurare - prevenzione nei confronti dei crescenti mugugni dellultrasinistra - che «non sarà una forza combattente», ma semmai «forza di sicurezza che possa installarsi sul territorio». Cosa intenda non lo spiega. Nel piano della Rice e nella risoluzione 1559 già votata dallOnu si prevede che si tolgano le armi alle varie milizie che infestano il Libano, a cominciare dagli hezbollah. DAlema evita approfondimenti. Si limita a osservare che «noi non vogliamo andare a fare la guerra, vogliamo andare col consenso delle parti e una volta che le ostilità siano cessate». E fin qui potrebbe anche andar bene. Ma se gli sciiti libanesi rifiutassero di consegnare missili e mitra? Se Siria e Iran continuassero ad esortare gli hezbollah a colpire? Il ministro degli Esteri - che auspica un accordo tra Gerusalemme e Damasco - evita di spiegare cosa potrebbe accadere. Mentre di una cosa si dice certo: «Parlo di una missione decisa con mandato dal consiglio di sicurezza dellOnu. Mentre mi sembra molto difficile pensare a una forza Nato perché questa ipotesi non verrebbe accolta dagli arabi».
Che lItalia ne faccia parte è anche questo scontato. Lo ha detto DAlema a deputati e senatori ma anche, nel pomeriggio, ad Abu Mazen, il presidente palestinese che la sera prima aveva fatto chiedere alla Farnesina di poter essere ricevuto e che ieri è piombato a Roma.
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