D’Alema sfida Israele: «Si fermi o niente truppe»

Alessandro M. Caprettini

da Roma

No tregua, no interposizione. Massimo D’Alema sbarca a Gerusalemme, viene a trovarsi in piena bufera e - dopo contatti con Roma e la Ue - gioca la carta della sfida ad Israele: «Se le operazioni militari non cessano, ogni prospettiva politica rischia di esser preclusa», taglia corto gelidissimo.
Aveva sognato altro volando sul Mediterraneo orientale. Sperava, il ministro degli Esteri, di poter mettere un altro mattoncino alla ricerca del dialogo di cui si era fatto interprete nel summit della Farnesina. E invece i morti di Cana sono finiti nei delicati ingranaggi diplomatici che sperava di utilizzare. E fin dall’inizio, nel primo colloquio con la collega Tzipi Livni si è reso conto che i margini della sua missione si erano fatti ridottissimi. Il ministro degli Esteri di Gerusalemme ha insistito sul fatto che l’incidente di Cana non dovesse distogliere «dalla necessità di trovare una soluzione stabile e di lunga durata in Libano». Ma D’Alema ha risposto picche. «Ingiustificabile» l’accaduto. «Orribile e controproducente» perché a questo punto - ha detto - si rischia «l’escalation militare».
E meno bene ancora è andato il suo secondo colloquio, col ministro della Difesa Amir Peretz, già leader dell’Histadrut (sindacato israeliano) divenuto poi il numero uno dei laburisti con cui D’Alema probabilmente sperava di trovare sponda. Si è sentito dire, il titolare della Farnesina, non solo che la strage di Cana si doveva al fatto che gli Hezbollah troppo spesso creano veri e propri «scudi umani»” di donne e bambini, ma che l’esercito di Gerusalemme ha bisogno di altri 10-12 giorni prima di potere fermarsi. Di qui il suo irrigidimento: «Se Israele vuol fare la guerra, non abbiamo certo i mezzi per fermarlo. Ma se Israele vuole l’aiuto della comunità internazionale, non si può fare perché la comunità internazionale non intende partecipare alla guerra! O c’è il cessate il fuoco, o c’è la guerra!».
E ha detto di più D’Alema. Ha fatto capire che la sua offerta di truppe italiane nella forza di interposizione che si andava studiando - e di cui avrebbe preferito si fosse parlato a Gerusalemme nella missione che finisce stamane - a questo punto è a un millimetro dal ritiro. «Se Israele vuole una guerra distruttiva, contro Hezbollah, non solo sarebbe una strategia sbagliata, ma noi ci ritrarremmo».
Giustifica la sua durezza, il ministro degli Esteri, con la necessità «degli amici di dire la verità agli amici». E assicura che nessun Paese occidentale sarà più intenzionato a far parte della forza di interposizione se non ci dovesse essere un immediato stop ai combattimenti. «Rischia di non esserci più il consenso dei libanesi - ha detto mettendo in rilievo l’assalto agli uffici Onu di Beirut - ma anche quello delle opinioni pubbliche occidentali». Senza contare, ha aggiunto, che appare davvero impossibile che il consiglio di sicurezza dell’Onu deliberi «su una forza internazionale mentre c’è il conflitto in corso». Poi, in serata, l’incontro con Condoleezza Rice e il generale pessimismo: «Mi pare che il cammino sia molto problematico. La posizione di Israele è così intransigente da rendere difficile che si possa sbloccare la situazione».
Sperava D’Alema - partendo in mattinata da Ciampino - di potere individuare spiragli per una azione che ne rilanciasse le quotazioni di paciere. Così, dal suo rapido e contrastato giro d’orizzonte - concluso con un incontro col premier Olmert e intervallato da un breve colloquio con la moglie del 19enne caporale Goldwasser, rapito il 12 luglio dagli Hezbollah - esce con poco o niente in mano. Salvo, con tutta probabilità, una accresciuta diffidenza di Gerusalemme nei confronti suoi e di Prodi.

Chiusura oggi (a meno di novità) in tono minore: visita al museo dell’Olocausto e incontri con leader religiosi. In attesa di riprendere a tessere la tela martedì a Bruxelles, dove è in calendario un summit dei ministri degli Esteri dei 25.

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