De Sica: "Con Pupi Avati ho imparato tanto"

L’attore è un imbroglione nel Figlio più piccolo: "Se facevo la macchietta mi sgamava sempre". E su Avati racconta: "E' esigente, un padre-padrone disponibile e permaloso"

De Sica: "Con Pupi Avati ho imparato tanto"

Roma - Succede nel nuovo film di Pupi Avati, Il figlio più piccolo: in sottofinale l’immobiliarista truffatore Christian De Sica esce dal carcere, sotto il sole d’agosto, portando con sé un panettone. Già, proprio lui, il re indiscusso dei cine-panettoni. «Speriamo che Aurelio De Laurentiis non s’arrabbi», finge di preoccuparsi. In attesa di volare a Los Angeles, dove dal 31 agosto girerà Natale a Beverly Hills, accanto a Sabrina Ferilli, Massimo Ghini, Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi, il 58enne mattatore ha interpretato una commedia d’autore, piuttosto feroce, scritta e diretta da Avati. Dove incarna, appunto, un affarista disinvolto, tal Luciano Baietti, presidente di una holding che vive di loschi traffici e spudorate connivenze. Quando arriva la crisi, e con essa la Guardia di finanza, allo squalo non resta che dar retta al consiglio del diabolico commercialista Bollino, ovvero Luca Zingaretti: intestare tutto al figlio più piccolo, Baldo, che però vive a Bologna con la madre, Laura Morante, e non vede da sedici anni. Prodotto da Medusa, il film sarà nella sale a febbraio.

Si direbbe la famosa svolta drammatica tante volte annunciata. Che fa, rinnega il genere che l’ha reso popolare?
«Non lo dica nemmeno, sennò Aurelio m’ammazza. È che a un certo punto della carriera uno si stanca di vivere sotto una campana di vetro dalla quale esci fuori una volta l’anno. Per questo ho fatto a teatro Parlami di me, in tv Lo zio d’America, ho scritto un libro, adesso una sceneggiatura con Enrico Vanzina. E poi io e Pupi ci si conosce da una vita. Nel 1976 girammo insieme Bordella, un film impegnato, antiamericano, di rottura... anche di palle».

Altri tempi, altro cinema...
«E già. Io ero un ciccione col botto. Pupi un giovane scapigliato. Portava la barba e i capelli lunghi, somigliava a Guccini. Indossava una maglietta con su scritto “Dr. Strangelove”. Ritrovarlo sul set è stato un piacere. All’epoca si comportava da pazzo, oggi sfodera un’ipersensibilità quasi femminile. Mi piace lavorare con lui. Anche perché somiglia un po’ a mio padre: come lui è disponibile e permaloso, gentile e incazzoso».

Tutto bene sul set?
«Benissimo. Mi sono pure commosso alla fine delle riprese. Neppure la sveglia alle 6 mi pesava. Mi crede se le dico che alla mattina non vedevo l’ora di arrivare sul set? Pupi è una specie di padre-padrone. A ora di pranzo voleva che mangiassimo tutti insieme al ristorante».

E con gli attori come s’è trovato?
«Mi hanno aiutato tutti. Davvero. Con Luca Zingaretti è nato un grande amore, ma dubito che lascerà Luisa Ranieri per me. Con la Morante anche. Sa, io sono abituato a Cindy Crawford e Anna Falchi, che saranno pure simpatiche, però... Laura m’intimoriva, pensavo che se la tirasse un po’, invece è una forza della natura. Brava e spiritosa».

Mai nessuno screzio con Pupi?
«Pupi è molto esigente. Noi comicaroli spesso andiamo col pilota automatico, scivoliamo volentieri nella macchietta che funziona. Io poi: il romano ex bello, imbroglione... Ma qui non era possibile. Infatti Pupi mi sgamava sempre: “Christian, sei falso, recita meno, parla sottovoce” protestava. Mi ha insegnato a non essere viziato, a liberarmi degli stereotipi, a cercare di essere più vero. Ho ripensato a un consiglio di papà. “Non cercare di dire le battute per far ridere o piangere. Ascolta chi ti sta davanti”. L’ho fatto».

Scusi, ma la sua svolta d’autore non doveva partire con «L’età dell'oro» di Antonello Grimaldi, dal romanzo di Edoardo Nesi?
«Tutto rimandato. Spero si faccia. Una storia struggente, dolorosa. Sono un industriale tessile di Prato, fallito e malato di cancro, alle prese con una strana ragazza».

Da un eccesso all’altro...
«Mi piace mettermi in gioco. Lo faccio anche con Il figlio più piccolo. A prima vista Luciano Baietti appartiene alla schiera dei cialtroni che ho sempre interpretato. Un mascalzone senza scrupoli, un padre distratto, un marito indecente. Chiama sua moglie “la scemina”, dopo averla depredata di due appartamenti e mollata coi figli nel 1992. Ma se nei film di Natale trasformo in pregi i difetti del personaggio, qui faccio emergere tutta la miseria dell’uomo. Una specie di mostro, pronto a tutto, ma con momenti magici. C’è una scena stupenda: racconto a mio figlio come ho costruito il mio impero economico e quasi piango».

Il modello, pare di capire, è la grande commedia italiana degli anni d’oro. Diciamo «Una vita difficile»?
«Sì, ma senza rifare il verso a Sordi. Mi sono ispirato a un modello più vero umanamente.

Questo è un film amaro sull’Italia di oggi, sul potere dei soldi, sull’idea che sei quello che hai».

Ha visto che il leghista Castelli ce l'ha con il cinema romano-centrico?
«Mi pare una colossale stronzata».

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