Emanuele Gamna, ex partner dello studio Chiomenti, accetta di parlare per la prima volta della famosa vicenda dell’eredità Agnelli. La storia è nota, notissima. Alla morte dell’Avvocato si apre una complessa vicenda ereditaria che si chiude, anzi non è ancora chiusa, con le carte bollate. Da una parte la figlia dell’Avvocato, Margherita Agnelli, e dall’altra il resto della famiglia e i due consulenti principe, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens. Il risultato del complesso negoziato per la divisione dell’eredità è il seguente: a John Elkann, il nipote scelto come leader dal nonno e figlio di Margherita, le chiavi della Fiat, a Margherita un complesso di attivi valutabile in 1,2 miliardi e alla moglie dell’Avvocato poco meno di trecento milioni e un vitalizio di sette milioni l’anno.
È l’avvocato Gamna a trattare nel 2003 e nel 2004 per conto di Margherita e a raggiungere l’accordo con i contenuti economici che abbiamo appena elencato. L’unica figlia dell’Avvocato ha però poi disconosciuto quell’accordo, ha denunciato infatti l’esistenza di un presunto patrimonio al di fuori dell’intesa e oggi è aperta un’indagine promossa dalla Procura di Milano per estorsione tentata o consumata ai danni di Gamna ad opera di Margherita Agnelli e dell’avvocato della signora, Charles Poncet.
Avvocato Gamna, sgombriamo subito il campo da un equivoco, lei per ora è l’unico in questa vicenda ad aver subito una condanna?
«Sì. Per aver assunto la piena responsabilità di un’evasione fiscale».
Tutto scritto sui giornali, il compenso che le ha pagato la signora Margherita non è stato dichiarato per intero. Ma che c’entra allora l’indagine di estorsione che la vede questa volta come parte offesa?
«Tutta la vicenda è nata in seguito all’acquisizione da parte della Procura di Milano di un dossier che includeva la corrispondenza tra l’avvocato Poncet e la signora Margherita Agnelli e che riguardava anche me e il mio avvocato svizzero. Dal dossier si evinceva chiaramente che io ero stato sottoposto a un lungo ricatto che aveva la finalità di farmi dichiarare il falso e così costruire delle "prove" che Margherita Agnelli avrebbe potuto utilizzare a suo favore nel processo da essa intentato a Torino contro Gabetti e Grande Stevens».
Fermiamoci un attimo e procediamo per ordine. Lei aiuta la signora Margherita a fare un accordo di divisione ereditaria. Lo studio legale per il quale lei lavorava era evidentemente al corrente della complessa e delicata assistenza che lei prestava alla signora. Qual è stato l’effettivo coinvolgimento dello studio in quella vicenda, tenuto conto che un importo, senz’altro rilevante, è stato pagato dalla signora a fronte dei servizi resi e dei risultati ottenuti nella trattativa, importo che in gran parte è poi risultato non dichiarato al fisco?
«Non rispondo a domande che riguardino lo studio legale per il quale all’epoca lavoravo. Al riguardo ho già detto tutto al sostituto procuratore di Milano».
Perché non intende parlare del suo ex studio?
«Se rispondessi a questa domanda, finirei di rispondere a tutte le domande che concernono lo studio. Ribadisco che ho assunto, io solo, tutta la responsabilità fiscale di questa vicenda, pagando di persona, come è noto, un prezzo elevatissimo, in termini economici e di immagine. La mancata dichiarazione fiscale di parte dell’importo corrisposto dalla signora Agnelli, fu in realtà frutto di un’intesa con la signora che aveva voluto "premiare" il risultato da me ottenuto al termine della trattativa con sua madre per la divisione dei cespiti inventariati del patrimonio dell’Avvocato Agnelli».
Un risultato che non sembra però oggi soddisfare Margherita.
«La signora fu soddisfattissima di tale risultato, del quale mi ringraziò pubblicamente e personalmente per anni».
Pubblicamente?
«Ci fu un comunicato stampa, in occasione del matrimonio di suo figlio John, in cui mi ringraziò e mise in evidenza che anche grazie al mio operato era stato possibile raggiungere un accordo soddisfacente per tutte le parti».
Insomma erano tutti d’accordo?
«Margherita conseguì grandi vantaggi economici. Le posso dire che il patrimonio inventariato dell’Avvocato Agnelli comprendeva cespiti del valore complessivo di circa 1,5 miliardi. Le ricordo che solo in tempi recenti, e per iniziativa della Procura di Milano che ha acquisito nella primavera 2009 le carte relative all’estorsione da me subita, è risultato chiaro che la signora ha avuto nel 2004, in sede di divisione del patrimonio di suo padre, valori complessivi pari a circa 1.200 milioni di euro. In soldoni circa 4-500 milioni in più di quelli che le sarebbero spettati se il patrimonio fosse stato ripartito fra lei e sua madre con criteri strettamente di legge».
Ma allora cos’è cambiato in Margherita Agnelli? Perché ciò che le andava bene ieri oggi non le garba più?
«La signora aveva un quadro definito del patrimonio off shore di suo padre già a fine 2003 ben prima di stipulare l’accordo divisorio con sua madre. Tra il 2003 e il 2007 non c’è stata, nonostante ciò che si è letto sui quotidiani, alcuna evidenza di un patrimonio ulteriore rispetto a quello noto alla signora al tempo della divisione con sua madre. Dunque la domanda che mi fa, la deve piuttosto fare alla signora Agnelli».
Perché, secondo lei, Margherita Agnelli non ha mai divulgato l’importo effettivamente conseguito in sede di riparto dell’eredità di suo padre?
«Come ora è divenuto noto, i cespiti più rilevanti dell’eredità presentavano problematiche fiscali che era bene non divulgare. Ma, a mio avviso, questa non è stata la sola ragione. La signora, promuovendo la causa a Torino contro Gabetti, Grande Stevens e sua madre Marella, doveva accreditare un’immagine pubblica di sé che la ritraesse come una vittima di malfattori, liquidata con "pochi spiccioli" e addirittura "coartata" a uscire dalla catena di controllo della Fiat. Mentre essa, in piena autonomia, si risolse a uscire dalla compagine perché il gruppo Fiat versava in condizioni disperate e lei, che aveva ereditato una quota di minoranza nella holding controllata da suo figlio, non contava e non avrebbe mai contato nulla».
Come fa a dire che l’unica figlia dell’Avvocato Agnelli e una delle sue due eredi, con la quota ricevuta in eredità, non poteva contare niente in Fiat?
«Margherita aveva ereditato il 37,5 per cento della società semplice (la Dicembre) a monte del gruppo Fiat. Lo statuto, del tutto legittimo, di questa società non consentiva alla minoranza di partecipare in alcun modo al controllo. Inoltre la madre di Margherita, che possedeva l’altro 37,5 per cento, aveva già espresso la volontà di cedere o donare la sua quota al nipote John, rendendo così impossibile a Margherita di salire in termini percentuali e confinandola così a un’eterna minoranza senza poteri».
Riprendiamo il filo. Come pensava Margherita, una volta sottoscritto un accordo di divisione, di ritornare sui suoi passi?
«Margherita si affidò ad abili consulenti della comunicazione che, attraverso continue, quasi ossessive, interviste e apparizioni sui media, e da ultimo anche un libro, costruirono l’immagine della sprovveduta casalinga, preda e vittima dell’establishment torinese e che aveva un solo obiettivo, di proteggere i figli di secondo letto (i De Pahlen, ndr) da ingiustizie perpetrate a favore degli altri tre figli (gli Elkann, ndr)».
Perché, non è così?
«L’obiettivo era la captatio benevolentiae del grande pubblico, interpretare la parte della mater dolorosa che tutto fa per proteggere i figli. È chiaro dunque che, se fosse divenuta pubblica la reale consistenza, ubicazione ed entità del patrimonio ottenuta da Margherita in sede di divisione ereditaria con sua madre, il mondo intero avrebbe capito che qualcosa nella ricostruzione dei fatti "spacciata" dalla signora, non tornava. Tenga conto poi che l’accordo firmato con sua madre nel 2004 era tale che, se si fosse scoperto in seguito un ulteriore tesoro riferibile al padre, esso sarebbe stato necessariamente diviso fra lei e sua madre in parti uguali. Salve restando eventuali donazioni fatte a terzi a valere sulla quota disponibile dell’eredità (un terzo del totale)».
E allora ecco il punto, la signora ha forse scovato un parte del patrimonio dell’Avvocato non compreso nell’accordo?
«Se lei avesse avuto inoppugnabile evidenza di un patrimonio ulteriore avrebbe ben potuto ottenere in giudizio la sua parte. In base a quanto ho letto, nessuna evidenza del genere è sin qui stata giudicata pregnante dalle autorità competenti».
La signora ha promosso l’azione al Tribunale di Torino anche per questo?
«Ne sono convinto. Ma il Tribunale ha rigettato tutte le sue domande e dunque non si è convinto delle sue allegazioni. Le prove addotte non sono state ritenute sufficienti».
Come si inserisce in tutta questa vicenda il presunto tentativo di estorsione che lei denuncia? Ciò che si è scritto, alla luce delle notizie apparse sui media, è che lei avrebbe subìto per anni un’estorsione che si fondava essenzialmente sulla sua fragilità fiscale e avrebbe avuto lo scopo di ottenere da lei denaro e dichiarazioni e testimonianze false. Ci vuole spiegare meglio la vicenda, e perché se davvero ricattato non denunciò subito le sue controparti, sottraendosi al piano ordito contro di lei?
«Guardi, all’inizio pensai che si trattasse di un malinteso. I rapporti miei e di mia moglie con Margherita e la sua famiglia erano talmente stretti, affettuosi e consuetudinari che le lettere, inviatemi già con intento estorsivo dall’avvocato Poncet nel primo periodo (maggio-settembre 2007), mi sembravano incompatibili con la Margherita che conoscevamo noi e piuttosto farina del sacco di Poncet e Abbatescianni che erano i suoi avvocati nella causa di Torino (contro Gabetti, Grande Stevens e Marella Agnelli). In effetti era difficile immaginare che gli avvocati assumessero iniziative così gravi senza la piena condivisione e il mandato della signora, ma ho voluto sperarlo, almeno nei primi tempi. Senza contare poi che la signora - anche in quel periodo, come aveva fatto in tutti gli anni precedenti - continuava a chiamarmi, quasi a consultarsi ancora con me, chiedendo aiuto e consigli e mi invitò persino all’inaugurazione di una sua iniziativa benefica in autunno a Torino e alla messa in suffragio del fratello Edoardo. Mi fu subito chiaro che la signora e i suoi avvocati nella causa di Torino non disponevano, come ho già detto, di prove concrete a supporto delle loro tesi e che quindi avrebbero letteralmente fatto "carte false" per raggiungere i loro scopi».
E lei a quel punto che fece?
«Quando mi divenne chiaro che il piano che mi concerneva vedeva lei e suo marito Serge de Palhen quali protagonisti e mandanti, capii che la mia situazione era senza uscita. Fu allora (dicembre 2007) che decisi di rivolgermi a un eminente collega del foro di Ginevra perché mi assistesse e diedi incarico a Marc Bonnant di darmi una mano. Ero effettivamente disperato e - letteralmente - annichilito dal tradimento di Margherita per motivi che mi apparivano profondamente ingiusti. Bonnant si rivelò un ottimo consigliere: mi disse fin da subito che la mia situazione era difficile perché all’epoca mi ero ingenuamente fidato della signora e non disponevo di prove per difendermi sul fronte fiscale. Le mie controparti erano perciò pronte a tutto per "spremere" da me quanto gli serviva e Bonnant considerò essenziale che noi si potesse provare in modo compiuto l’estorsione. L’illustre collega confidava che Margherita e Poncet si sarebbero fermati prima del baratro, anche perché la signora - quale beneficiaria a suo tempo di un’immensa fortuna mai dichiarata al fisco italiano - avrebbe avuto anch’essa problemi evidenti se la vicenda fosse divenuta di dominio pubblico. Ma in ciò Bonnant si sbagliò perché la signora e Poncet andarono fino in fondo probabilmente perché, quando il loro gioco fu scoperto dalla Procura di Milano, si trovarono in un cul de sac. E forse - con il senno del poi - ciò è stato un bene. In ogni caso l’intervento di Bonnant fu fondamentale per costituire la prova documentale dell’estorsione, data la propensione di Poncet a scrivere molto e ossessivamente alle sue controparti e soprattutto alla sua cliente, come è poi risultato chiaro da alcuni verbali delle riunioni interne del team di legali che assisteva Margherita (pubblicati dai giornali) e dalle lettere di rendiconto che lo stesso Poncet inviava a Margherita regolarmente. Ciò che oggi mi appare evidente e che ho detto ai magistrati è che Margherita e suo marito Serge, fin dal 2004, pensarono di utilizzare la mia fragilità fiscale per ottenere futuri benefici. Certo all’epoca ero lungi dall’immaginare una cosa simile. La signora era pur sempre un’Agnelli e ritenevo quel nome incompatibile con un comportamento tanto bieco».
Per farla semplice. Lei ha detto ai pm che la signora Margherita Agnelli sin da subito le diede un compenso in nero, sapendo poi di far leva su di esso per ottenere da lei una dichiarazione contro Gabetti e Grande Stevens?
«All’epoca (2003-2004) un pensiero del genere neppure mi sfiorò. Oggi sono costretto a mettere insieme i pezzi del puzzle, e debbo ritenere assai probabile che la signora e il marito abbiano pianificato tutto fin dall’inizio. Ottenuto il denaro nel 2004, si potevano ottenere altri vantaggi, approfittando della mia fragilità fiscale».
Perché la sua testimonianza o dichiarazione giurata nel processo di Torino avrebbe assunto, per la signora Agnelli, un’importanza quasi capitale?
«Perché io trattai la divisione del patrimonio ereditario in prima persona con i miei interlocutori, cioè Donna Marella e Gianluigi Gabetti e questa circostanza avrebbe conferito credibilità a qualsiasi mia affermazione, resa nel contesto del processo torinese. Se io, costretto, avessi affermato il falso sotto giuramento, cioè che esistevano altri cespiti ereditari e che di ciò ero venuto al corrente nei miei colloqui riservati con le controparti, la posizione di Margherita nel processo di Torino si sarebbe enormemente rafforzata e lei probabilmente pensava di ottenere così ulteriori sostanziali vantaggi economici».
Quando le divenne chiaro che l'intento di Margherita era il medesimo dei suoi avvocati e quando prese coscienza del piano che la coinvolgeva?
«Come ho già detto alla Procura di Milano, Margherita e suo marito nell’autunno 2007 mi ricattarono apertamente e di persona e mi dichiararono la piena condivisione del piano messo a punto dai loro avvocati e già abbozzato nelle lettere che avevo ricevuto e negli incontri che avevo avuto con Abbatescianni a Milano. Il piano era persino semplice. La difesa di Margherita nella causa di Torino non disponeva di prove concrete e univoche che inchiodassero Gabetti e Grande Stevens alle responsabilità che Margherita addossava loro in qualità di gestori del patrimonio personale e off shore dell’Avvocato Agnelli, né di indizi sufficienti a provare l’esistenza di ulteriori attivi riferibili all’Avvocato nascosti fuori Italia e a lei sottratti; ciò è risultato chiaro a tutti solo a marzo di quest’anno, in seguito al rigetto di tutte le domande di Margherita nella causa di Torino. Ma a me fu chiaro già nel 2007, perché, sia gli avvocati di Margherita che lei medesima, mi chiesero con insistenza "collaborazione", preannunciando per iscritto la mia chiamata a teste nel processo di Torino. Mi fu chiaro allora (anche se la questione dell’affidavit falso è uscita dal cappello di Poncet solo nel 2008) che io avevo per loro un ruolo essenziale per ottenere vittoria nella causa di Torino. In parole povere mi offrivano un parziale salvacondotto fiscale, in cambio di una falsa testimonianza e collaborazione nella costruzione di prove a carico di Gabetti e Grande, finalizzate a ottenere altro denaro da eventuali altri beneficiari del patrimonio dell’Avvocato. Si immagini che - per ottenere da me quel che volevano - Poncet, non solo mi bersagliò con una gragnuola di lettere ma mi sottopose anche a un interrogatorio durissimo durato ore nel marzo 2008, nel quale non ottenne nulla di utile per i suoi fini. Per questo la rabbia della signora montò alle stelle. Mi divenne chiaro, nel corso di quell’interrogatorio, che la signora Agnelli non disponeva di evidenze relative al patrimonio nero di suo padre, diverse da quelle di cui già disponeva nel 2003».
Cosa vuol dire parziale salvacondotto fiscale?
«L’intenzione di Poncet, peraltro molto accuratamente descritta dallo stesso Poncet nella sua corrispondenza con Margherita, era di ottenere da me la restituzione quasi integrale del premio che la signora mi aveva corrisposto volentieri nel 2004, per pagare sé stesso e gli altri avvocati che assistevano all’epoca la signora e in più di ottenere da me la firma di un affidavit (dichiarazione giurata) che conteneva affermazioni spudoratamente false ai danni di Gabetti e Grande Stevens (oltre che di me medesimo), e che gli avrebbe poi consentito di propormi come teste chiave a favore di Margherita nel processo di Torino. Margherita e Poncet, per dare un abito per così dire moralmente accettabile al loro programma, si inventarono nel 2008 uno strumento da utilizzare al momento opportuno: che io avrei fatto il doppio gioco, facendo più gli interessi di Marella Agnelli e dell’ingegnere Elkann che i suoi, al tempo del negoziato sulla divisione dell’eredità. Un’invenzione, certo, ma suggestiva per un pubblico che ancora la vedeva come vittima di un sopruso».
Mi scusi ma non vedo ancora alcun salvacondotto fiscale per quanto la riguarda.
«Penso che la signora accarezzò l’idea, suggerita anche da Poncet, che io alla fine accettassi di restituire quasi l’intera somma, pur di sottrarmi al ricatto. La signora sapeva bene che non avevo alcun documento o evidenza che mi permettesse una difesa davanti al Fisco per il pagamento che lei aveva volentieri disposto a mio favore. Era invece evidente che, quand’anche avessi restituito nel 2008 il compenso ricevuto, sarei comunque rimasto ricattabile a quei fini. Anzi avrei in qualche modo fatto il loro gioco. Bonnant e io concludemmo che la signora e Poncet al tempo stesso erano sicuri della loro impunità e non potevano fare a meno della mia "collaborazione", al punto di non vedere che si trattava di proposta, non solo indecente, ma soprattutto per me moralmente inaccettabile e senza interesse».
Margherita aveva dei sospetti che qualcuno in particolare si fosse appropriato di una fetta nascosta dell’eredità?
«La signora aveva le idee piuttosto chiare sull’entità e su come l’eredità di suo padre era stata ripartita e - già nel 2003 - aveva accettato la divisione con sua madre, anche alla luce di ipotesi che avevamo a lungo discusso con lei, suo marito e l’altro consulente dell’epoca, avvocato Patry. Ma penso che Margherita non abbia mai davvero accettato il ruolo attribuito da suo padre a suo figlio John, molto legato anche affettivamente a Gabetti e Grande e che lei vedeva come usurpatore della funzione di capofamiglia. Com’è noto, la designazione di John a quel compito proveniva dall’Avvocato e, in vita di suo padre, Margherita mai la contestò. Tale ruolo fu apparentemente accettato da Margherita in tutti gli anni che seguirono la morte del padre. Fu solo nell’agosto 2006 che Margherita, nel corso di una crociera sulla sua barca, mi disse che avrebbe visto bene suo marito nel ruolo di presidente della Fiat e che ciò avrebbe contribuito a tenere la sua famiglia unita».
Altro che presidenza, il marito di Margherita fu licenziato in tronco nell’autunno del 2005, dopo che l’accordo ereditario era stato firmato. Non proprio un gesto pacificatore da parte della famiglia, non trova?
«Concordo con lei, Margherita in realtà fu molto scossa dal licenziamento di suo marito. Licenziamento, anche a mio parere, quanto mai inopportuno. E che scatenò una grande rabbia nei confronti del figlio John e dei principali consiglieri di quest’ultimo. Forse questo fu un elemento dirompente che portò Margherita alla dichiarazione di guerra che conosciamo».
Margherita, secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, la considera però l'amico che ha tradito. Lei nega qualsiasi sua accondiscendenza nei confronti di Gabetti, Elkann e Marella Agnelli, nel corso del famoso negoziato per l’eredità?
«La signora nel 2003 mi scelse come suo legale non certo per caso. Essa accettò ben volentieri la condizione che posi, che cioè si trattasse di un’assistenza volta a raggiungere un accordo fuori dalle aule dei tribunali. Non solo per la delicatezza della vicenda che , in realtà , coinvolgeva tutta la famiglia Agnelli in un momento difficilissimo per il Gruppo Fiat, ma anche perché i miei rapporti con tutte le controparti di Margherita erano ottimi. Margherita, a ragione, pensava che avremmo ottenuto un risultato eccellente soltanto se l’interlocutore di Gabetti e di sua madre Marella fosse stato un professionista ben noto a loro e da essi stimato. Tenga conto che l’affettuosa amicizia di mia moglie e mia con Suni Agnelli fu un elemento determinante nella scelta di Margherita, dato il ruolo di capofamiglia che Suni aveva inevitabilmente assunto dopo la morte dei fratelli. Il compito era difficilissimo e si giunse al risultato, dopo molte elaborazioni ed ipotesi, al prezzo di compromettere per gli anni successivi i miei buoni rapporti con Marella Agnelli e John Elkann. Difatti mia moglie e io non abbiamo più rapporti con Donna Marella fin dall’autunno del 2003, cioè da quando si innescò un braccio di ferro che portò a Margherita la quota ereditaria che ora è nota, a tutto scapito di sua madre. Si tenga conto poi che io ho non ho mai lavorato per il Gruppo Fiat e non ho mai intrattenuto rapporti di lavoro con il dottor Gabetti che - per quanto fosse fra i più grandi amici di mio padre - non favorì mai qualsivoglia incarico professionale. Tanto meno, dopo la stipula dell’accordo ereditario nel 2004. Margherita sa benissimo che l’ho sempre assistita con diligenza e abnegazione e ha elaborato l’idea del mio tradimento solo perché funzionale a conseguire i suoi obiettivi».
Perché, secondo lei, Margherita - per il tramite dell’avvocato Poncet - la denunciò alla Procura di Milano e al Consiglio dell’Ordine per evasione fiscale solo nel maggio-giugno 2009?
«È semplice. Perché la Procura aveva nel frattempo acquisito tutte le carte relative all’estorsione da me subita e quindi apparve chiaro che, anche per questa ragione, io non potevo più essere utilizzato quale teste a favore di Margherita nel processo di Torino. Il gioco di Margherita e di Poncet era scoperto e quindi io ero una carta bruciata, per loro. Quindi, un po’ per vendetta, per essermi io rifiutato per due anni di aderire alle richieste pressanti di Margherita e di Poncet, un po’ perché occorreva - come ho già detto - dare una veste di moralità apparente, e contrastare in qualche modo l’evidenza che di estorsione si era trattato, furono depositate le denunce contro di me per evasione fiscale. Denunce che si sono rivelate un boomerang... ».
Perché? Ce lo spiega meglio?
«Margherita mi è sempre parsa una donna tutt’altro che sprovveduta, a dispetto dell’immagine accattivante di donna ingenua e sempliciotta che per anni è riuscita a "vendere" ai media, come ho già detto poc’anzi. Con un certo acume mi scelse come negoziatore per ottenere la sua parte del patrimonio del padre. Donna attentissima al denaro e che personalmente, con l’aiuto del marito, si occupa benissimo dell’amministrazione del suo patrimonio. Purtroppo per lei, si è convinta, col tempo, di beneficiare di una sorta di impunità, legata al suo nome e al timore reverenziale che esso poteva incutere nelle istituzioni italiane e persino nei giudici. Questo è stato il suo errore, pensare che tutto a lei fosse consentito, e di conseguenza ai suoi avvocati. Per la signora e il marito, come ho dovuto realizzare negli ultimi tre anni, il fine giustifica sempre i mezzi. Ricattarmi per ottenere da me denaro e falsa testimonianza era, ai loro occhi, giustificato, dall’esigenza di far male a Gabetti, Grande e a John Elkann, per ottenere altro denaro. Un circolo vizioso nel quale si sono esaltati, certi dell’impunità. Ma ora dovranno accettare che la legge italiana si applica anche a chi porta il nome Agnelli e in ogni caso i tempi sono cambiati dai gloriosi dell’Avvocato. Il mito è caduto, perché la signora ci ha obbligati a vedere quel che prima era impensabile. Ma con la caduta del mito e il trasparire della verità, la signora ha perso ogni possibile credito, quale erede di un uomo che - nel bene e nel male - ha rappresentato l’Italia industriosa per una cinquantina d’anni. Ora la palla è passata alla magistratura inquirente che, mi auguro davvero, farà luce su questa orribile vicenda.
(1. Continua)
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