La destra vince quando fa politica

Si discute tanto a destra in questo periodo, dentro e fuori Alleanza nazionale, sul tema dell'identità della destra. È un dibattito importante che però, se non lo si vuole ridurre a chiacchiericcio estivo, deve mantenere alcuni punti fermi. La storia politica del Novecento insegna che in Italia la destra diventa movimento di massa e forza politica maggioritaria quando riesce a uscire dai suoi cliché, dalle rappresentazioni e dalle autorappresentazioni castranti per cui è «di destra» tutto ciò che sta un passo dietro la contemporaneità: l'opposizione ai processi di modernizzazione sociale, la difesa dell'immobilismo del mondo tradizionale, l'elevazione della nostalgia e del passatismo a categoria politica, la coltivazione di un'idea dell'elettore di destra un po' rétro e bacchettone. Se la destra si riduce a questo, e fin quando la destra coltiva di sé un'idea di questo genere, magari travestendola con formule che cercano di conciliare capre e cavoli, è condannata a essere un fenomeno residuale.
La storia politica più recente, come dimostra giorno dopo giorno lo stra-abusato esempio francese di Sarkozy, insegna esattamente la stessa cosa: la destra vince se rompe gli schemi. Se da contenitore di tutte le forme di conservatorismo si trasforma in laboratorio di innovazione politica e sociale. Se ristabilisce il primato della politica abbracciando il vitalismo, l'immaginazione, la liberazione delle energie positive che circolano in una nazione, l'eclettismo culturale, l'ottimismo ponderato dal realismo. Se parla anche a chi sta oltre la destra.
Tutto il resto è noia e, politicamente parlando, significa condannarsi a rappresentare solamente quel segmento di società che ha paura - del mutamento dei costumi, del pluralismo degli stili di vita, della mobilità sociale, della società multireligiosa - e reagisce erigendo un castello artificiale di sicurezze e di rimpianti per un «bel tempo andato» che si pretende immutabile, indiscutibile, intoccabile.
Nel dopoguerra questo vizio ha contagiato una parte della cultura di destra, che ha scelto di mettersi con tutti e due i piedi fuori dal mondo moderno e rinchiudersi in qualche turris eburnea, da cui sfornare certezze assolute, magari affascinanti ma sterili e inservibili da un punto di vista politico. Oggi sopravvive in qualche rispettabilissimo intellettuale conservatore che fa buona rendita del suo guardare con la puzza sotto il naso e il ditino inquisitore chi sceglie di stare nel mondo e fare i conti con la politica, attività umana e per ciò stesso fallibile e sottoposta al rischio dell'errore.
Ma a poco a poco, con un curioso fenomeno di rinculo ritardato rispetto ai primi anni della Seconda repubblica, questo virus si insinua anche nel mondo politico, dove si sta manifestando una destra con il torcicollo. Questa destra vive in una ossessione identitaria, è terrorizzata da ogni contaminazione culturale (ad esempio, la lezione del sarkozismo) e politica (ad esempio, il partito unitario di centrodestra). E dimentica ciò che in politica è un dato fondamentale: se un movimento politico privo di identità è uno Zelig condannato a perdersi, un movimento politico prigioniero di una presunta identità stabilita una volta per tutte è un Totem impolitico, incapace di muoversi e perciò condannato a rattrappirsi e abbaiare alla luna.
Una destra davvero contemporanea ha di fronte a sé delle sfide incredibilmente affascinanti da affrontare con senso di responsabilità: la ri-costruzione dell'identità nazionale che renda l'italianità un valore a tendere e non un concetto museificato, la modernizzazione dello Stato che restituisca capacità di decisione e autorevolezza alle istituzioni, la definizione di un nuovo modello di cittadinanza che si apra senza complessi anche all'immigrato che aspira a diventare italiano, la riforma del welfare state che renda possibile il trasferimento dei suoi benefici anche alle nuove generazioni. Eccole qui, le «cose di destra» sulle quali bisognerebbe confrontarsi nelle sedi della politica e della cultura, mettendo da parte il solito gioco delle etichette - chi è più o meno di destra - che spesso nasconde pigrizia intellettuale o penuria di vera progettualità politica. Contano le risposte alle grandi sfide, i contenuti che si è in grado di presentare di fronte a una comunità nazionale, non la ricerca di qualche punticino percentuale di consensi o il solletico alle paure diffuse nella «pancia» del nostro Paese. A proposito di contenuti. Quelli che abbiamo sentito evocare negli ultimi mesi dalla destra torcicollista sono l'intransigenza religiosa, l'anticomunismo, il giustizialismo, la lotta all'immigrazione. Cioè una destra fuori tempo massimo che caccia fuori bersaglieri e tricolore da Porta Pia, rimpiange i Comitati civici di Gedda, accarezza il dipietrismo delle origini e ridesta Jean-Marie Le Pen. Cioè una destra che dimentica la grande lezione del Novecento.
Un'ultima annotazione.

Giovanni Sartori ha spiegato chiaramente come una sinistra e una destra su posizioni massimaliste favoriscono l'emersione di un Grande Centro perennemente al governo. Si fidi almeno di un grande conservatore come Sartori, la destra torcicollista.
Angelo Mellone

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