Diario da Shanghai: se questa Cina non è un Paese per italiani

L'uovo di Colombo del governo di Pechino: ogni scontrino fiscale ha sul lato una specie di "gratta e vinci". L'evasione si combatte anche così...

Diario da Shanghai: 
se questa Cina non è 
un Paese per italiani

A un certo punto i funzionari del­le tasse di Shanghai si resero con­to di una buffa storia. Il 75 per cen­t­o del fatturato dei ristoranti in cit­tà era fatto da grandi catene stra­niere. Insomma, improvvisamen­te nessuno più mangiava cinese. Ovviamente non era così. È pur vero che europei e americani han­no riempito il Bund di teppan­yaki, quelle piastre calde, oggi praticamente bandite in Europa, dove un finto chef giapponese (praticamente sono tutti filippi­ni) vi cucina la carne di Kobe (fi­gurarsi). Ma la realtà è che i cinesi facevano gli italiani. E non paga­vano uno yuan di tasse. A proposi­to è molto old fashion chiamare i renmimbi, yuan. Ma questo è un altro discorso. Ritorniamo ai no­stri evasori.

Il governo cinese si è inventato l’uovo di Colombo. Ogni scontrino fiscale ha sul lato superiore una specie di gratta e vinci. Un grattino. Sapete una di quelle finestrelle argentate che si grattano con la monetina e con la terribile unghia lunga del mignolo (così di moda da quelle parti). Quello che in Italia si chiamerebbe conflitto di interessi.L’avventore ha tutto l’interesse, appunto, di farsi dare lo scontrino, e obbligare così l’esercente a battere cassa. Improvvisamente la legge, diventata poi nazionale, ha ribaltato la torta dei fatturati e sconfitto, si presume, l’evasione spicciola. Le vincite vanno da pochi euro fino a centinaia di euro. Buona idea.

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I cinesi che se lo possono permettere sono fissati con il gioco e con i numeri. C’è chi dice che il ponte che unirà Hong Kong a Macao (si dovrebbe realizzare in due anni, tutto sul mare per una distanza simile a quella che c’è tra Milano e Bergamo) nasca proprio dalla richiesta dei very rich people di avere a portata di auto la nuova Las Vegas d’Oriente.

Quando prende la fregola del gioco il traghetto smorza gli entusiasmi. È pur vero che con l’aliscafo si impiegano solo 40 minuti, ma sono troppi per il tavolo verde. La vera follia resta l’idiosincrasia per numero 4. Fate un giro per le strade di Pechino e Shanghai, il cui traffico non ha confronti con il mondo, e faticherete a trovare una targa che contenga al suo interno un quattro. Qualche tassista, davvero sfigato, non ha potuto farne a meno. Ma per il resto il 4 è bandito. Andate a Midlevel, a un passo dal centro di Hong Kong, proprio sotto allo chicchissimo Peack, e chiedete una casa in affitto. Non c’è nulla. A meno che non vi accontentiate del quarto piano. E allora qualcosa si trova. 120 metri quadrati (un vero lusso per Hong Kong) a 6.000 euro al mese. Un prezzo ragionevole per quella zona, ma siete al quarto piano. Il mensile italiano Quattroruote ha aperto (e funziona alla grande) un’edizione cinese, a Pechino. La traduzione della testata non contiene ovviamente il numero 4.

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Lo status symbol per definizione del cinese ricco è l’auto. La Bmw vende più serie Sette, serie 5 e X6 in Cina che negli altri singoli Paesi del mondo. Per questi modelli di extralusso la Cina è il suo primo mercato. La Ferrari ha nella cosiddetta Grande Cina (compresa dunque Singapore e Taiwan) il suo secondo mercato. L’età media di un ferrarista in Cina è 35 anni. Più o meno l’età in cui in Italia si prende il primo stipendio. Al salone dell’Auto di Shanghai c’erano tutti i costruttori che contano e lì sono stati presentati, nei giorni scorsi, decine di anteprime mondiali. Ma il lusso della macchina non basta. Ai cinesi devi vendere il passo lungo. Una schifezza per i nostri aggraziati gusti occidentali. Insomma: prendi un modello tradizionale e lo allunghi. Hai delle specie di limousine dalla forma nota: il nuovo ricco si può così accomodare dietro, con l’autista alla guida. Bmw le produce ad hoc e in loco. La Ferrari, ci auguriamo si astenga. Le macchine di lusso che superano i 4 litri godono di un trattamento fiscale piuttosto punitivo: il 100 per cento di dazi. Ciò che in Italia costa 300mila euro, a Pechino la trovi in listino a 600mila. Con il rischio di beccarsi le targhe alterne. I concessionari hanno il problema dei contanti. Il cliente si presenta con la valigetta e il cash: voglio quella, quella e quella. È difficile immaginare un paese che abbia più macchine conta-contanti ( tipo quelle che hanno i cassieri in banca) disseminate in ogni dove. Può sempre essere utile contare quei 2-300mila euro per gli acquisti compulsivi.

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Gli orologi seguono, ma di poco, come status symbol. Le Borse hanno questa speciale classifica: Chanel, Bottega Veneta, e ancora Bottega Veneta e Chanel. I negozi di queste due marche negli aeroporti cinesi si dice che fatturino intorno ai 20 milioni l’anno. Non che agli altri big del lusso vada molto peggio. I vini sono per definizione francesi. Scordatevi il made in Italy che peraltro ha una botta del 48 per cento di dazi all’importazione. C’è qualcosa di Zonin,grazie a un buon importatore occidentale. E qualche buona bottiglia di Gaja. Per il resto briciole. Impazzano i cileni che vendono all’ingrosso: senza imbottigliare, vino sfuso. La casa è un problema. Per il momento. Ma ci si dovrà lavorare sopra. Resta infatti quel brutto ricordo della legge che impedisce (nessuno è certo della sua effettiva abrogazione) di fare riunioni in casa con più di tre persone. Roba da comunismo maoista. Un freno nel rendere l’abitazione status symbol del cinese ricco. Non si riceve in casa. Lo fanno i diplomatici, ma questa è un’altra storia. Al cinese non resta che la fabbrica. Gli uffici sono favolosi: più genere Versailles che Philip Stark. Ognuno ha i suoi gusti. E i quattrini scorrono comunque a fiumi.

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I tassisti cinesi non parlano l’inglese. E quelli di Hong Kong lo stanno disimparando. In compenso a Shanghai si sono inventati (non è poi così difficile) la public transportation card. Una sorta di ricaricabile con la quale pagare tutti i mezzi di trasporto pubblici in città: dall’autobus alla metro, dal battello al taxi. Il tassista lo poggia sul suo tassametro e il gioco è fatto. Sono poche le cose meno care dei tassisti di Shanghai, anche rispetto al lavoro infernale che gli tocca fare. Il trenino che porta dal centro di Shanghai (a due passi da Pudong) all’aeroporto impiega 8 minuti. Chiamarlo trenino è in effetti un’offesa per il Maglev: procede a circa 450 chilometri l’ora. E costa una decina di euro. È favoloso, ma dà anche l’idea di come ai cinesi manchi ancora qualcosa. È tutto perfetto. La stazione è comoda. Il treno è puntuale. Il costo è contenuto. La frequenza è ottimale.Ma l’intonaco della stazione si è scrostato: e ha meno di due anni. Non conferisce quell’aria blasé di una vecchia stazione fascista, ma dà il senso del mal fatto. Riscalda, cinicamente, il cuore: non tutto è perduto. Come quando si prova la schiuma da barba cinese, venduta a pochi cent, e che in un caso ogni tre ha una perdita sotto l’erogatore. Sono bravi, bravissimi: ma tutt’altro che perfetti. Magra consolazione.

PS. La Cina è ovviamente tante cose. E non si descrive in poche righe e in poco tempo. La presunzione di voler raccontare qualcosa che non si conosce e proprio per questo si pretende di capire è micidiale.

Per questo qualche piccolo appunto di viaggio non può che avere un alto tasso di leggerezza. La stessa di chi pretendeva di raccontare il falò delle vanità americane negli anni ’80. Resta il sapore di un immenso Paese che non è fatto per gli italiani.

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