Si tratta di un disturbo che colpisce tanti italiani, i quali, spesso e volentieri, preferiscono dire addio definitivamente ai latticini: l'intolleranza al lattosio, che porta a eliminare il latte ma anche gustosi derivati quali formaggi e gelati, solo per citarne alcuni, viene vissuta con insofferenza, per cui è chiaro che ci si chieda se è possibile continuare a consumarli senza essere costretti a passare alle loro alternative "delattosate".
Innanzitutto è bene chiarire due aspetti: il primo è che l'intolleranza al lattosio è di tipo "quantitativo", per cui una dose minima come quella presente in un caffé macchiato, possono berla quasi tutti al contrario di quanto accade invece per il classico tazzone di latte da colazione. Il secondo è che nessuno è completamente intollerante, essendo il disturbo connesso a una carenza, e non a una mancanza totale, dell'enzima noto col nome di lattasi.
"È una condizione fisiologica dell'homo sapiens fino all'avvento (12-13mila anni fa) dell'agricoltura e della pastorizia", spiega al Corriere Enzo Spisni, docente presso l'Università di Bologna che dirige il laboratorio di Fisiologia traslazionale e Nutrizione, nonché autore del libro "Siamo tutti intolleranti". "Fino a quel momento eravamo tutti geneticamente intolleranti al lattosio, perché nessuno beveva latte dopo lo svezzamento", prosegue, "in seguito, si sono instaurate mutazioni che hanno permesso di mantenere l'espressione della lattasi anche nell'adulto, ma non si sono diffuse in tutte le popolazioni: in Italia circa il 50% delle persone è geneticamente tollerante e metà geneticamente intollerante".
Negli intolleranti la produzione di lattasi cala in modo drastico dopo lo svezzamento, ed è da qui che si origina il problema: quando il lattosio raggiunge il colon, dove non viene digerito correttamente a causa di questa carenza, si verificano due "processi fermentativi", ovvero la formazione di gas in eccesso e la dissenteria. Ciò non significa, comunque, che se non si riesce a reggere una tazza di latte o l'assunzione di latticini si sia per forza di cose geneticamente intolleranti. "Ci sono i geneticamente tolleranti che non sopportano il latte e i geneticamente intolleranti che riescono a berlo, almeno in piccole quantità", precisa l'esperto. "Spesso troviamo persone che fino a 25 anni hanno bevuto latte senza problemi e poi hanno cominciato a stare male", considera Spisni: a essere cambiata non è la genetica, bensì le abitudini, rispetto magari a quando da piccoli ne bevevamo quantità più abbondanti, l'intestino e nello specifico il microbiota intestinale. "Infatti, nelle intolleranze esistono una varietà di condizioni che dipendono non soltanto dalla genetica, ma anche da come stia l'intestino in quel momento", aggiunge il ricercatore.
Si può quindi diventare intolleranti al lattosio anche da adulti e senza esserlo geneticamente: se si scatena una crisi, in questo caso, ciò è sintomo del fatto che in nostro macrobiota intestinale ha ridotto la capacità di assorbimento del lattosio, spesso a causa di uno squilibrio dei batteri presenti al suo interno. "L'introduzione di lattosio può dare fastidio in una situazione di 'disbiosi fermentativa', e causare sintomi intestinali anche quando il problema non è causato dalla genetica", spiega Spisni.
E ora la domanda che tanti di coloro i quali hanno vissuto con insofferenza il distacco da certi alimenti si fanno spesso: è un processo che si può in un certo modo invertire? "Partendo dall'intestino si può, se non regredire completamente, fortemente migliorare la sintomatologia, che incide sulla quantità di alimenti che posso bere o mangiare senza avere problemi", replica il ricercatore, "non è un percorso facile, ma si può fare". Un percorso, peraltro, che può compiere anche chi è geneticamente intollerante, anche se con dei limiti ovviamente più stringenti. "Se la mia base di partenza è dover stare attento alle piccole quantità di lattosio, quasi come fossi un allergico, e dopo, invece, potrò mangiare un gelato senza alcun disturbo, è già un chiaro miglioramento della qualità della vita".
Il primo passo verso quest'inversione è quello di riequilibrare l'intestino e il suo microbiota, partendo da un'analisi di quest'ultimo tramite una semplice analisi delle feci o delle urine: da qui è possibile comprendere se vi sia o meno una disbiosi fermentativa o di altro genere. "Con una disbiosi di tipo fermentativo, quella più frequente, bisogna lavorare inizialmente con una dieta a basso carico di cibi fermentabili e poi ricominciare gradatamente a inserire i cibi fermentabili fino ad arrivare all’equilibrio", precisa l'esperto. Una volta raggiunta una condizione di partenza migliore per poter assumere nuovamente lattosio, bisogna procedere per gradi: "Le quantità che riuscirò a gestire dipendono dalla genetica e dal regime alimentare di ognuno", aggiunge Spisni, "diete poco salutari, infatti, fanno tornare l’intestino in condizioni tali da non poter più digerire il lattosio".
Ovviamente i primo consiglio è quello di evitare il fai da te: meglio affrontare il percorso con l'ausilio di un nutrizionista o di un gastroenterologo, in modo da operare preventivamente sul microbiota. "Con una dieta fatta particolarmente bene la condizione migliora, ma fronteggiare da soli una disbiosi associata a un'infiammazione intestinale non è semplice, perché le due condizioni si auto-mantengono", mette in guardia il ricercatore, "per spezzare il circolo vizioso servono probiotici, post biotici, eubiotici".
Spisni è poco incline al
procedere con la totale assunzione di prodotti delattosati. Prima di tutto perché non si va ad affrontare il problema reale, e poi perché solitamente questi alimenti hanno indici glicemici molto più alti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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