Dimmi come porti i capelli e ti dirò chi sei (e cosa fai)

Chiome, acconciature, tagli: sono segni di identità sociale, arma di ribellione e oggetto di fascino...

Dimmi come porti i capelli e ti dirò chi sei (e cosa fai)

In un episodio della serie inglese Fleabag, la protagonista e la sorella, giovani donne londinesi molto diverse fra loro, dopo un malinteso col parrucchiere commentano: «Hair is everything», e cioè: «I capelli sono tutto». Un'iperbole? Chissà, ma di certo i capelli contano molto.

A ricordarcelo c'è un bel saggio di fiction-non fiction di Elena Martelli, All'aria sparsi. Storia culturale dei capelli (Il Saggiatore, pagg. 264, euro 18). Adesso, in vacanza, i nostri capelli sono più liberi del solito di crescere o farsi scompigliare dal vento o annodare dalla salsedine. Idem gli altri peli del corpo, per esempio la barba maschile. Fate caso a quante volte si parla dei capelli come di una bandiera di libertà. Negli anni Sessanta il californiano libertario David Crosby in Almost cut my hair cantava: «L'altro giorno avevo quasi tagliato i capelli. Ma non l'ho fatto, chissà perché. Mi va di lasciar sventolare la mia bandiera hippy».

L'autrice ha deciso di scrivere il libro durante una chemioterapia a causa della quale i capelli li ha persi. Sembra che alle donne l'annuncio di dover subire un trattamento antitumore risvegli un incubo tricologico. Se ne accenna anche nell'ultimo libro di Michela Murgia, Tre ciotole, dove è l'oncologo a parlarne per primo per rassicurare la paziente che non li perderà.

Del resto fin dai primordi della storia umana le chiome sono state un codice d'identità. Mentre le scimmie hanno tutto il corpo coperto di peli, ma una capigliatura relativamente ridotta, noi esseri umani abbiamo sviluppato proprio il crine in testa, barba e baffi compresi (per i maschi). I capelli sono dunque un fatto culturale, materia per antropologi. Non ci vuol molto a rendersene conto. Pensiamo alla tonsura dei monaci cristiani, al cranio rasato di quelli buddhisti. Ma pensiamo anche alla privazione dei capelli come strumento di umiliazione, nei collegi, nelle caserme, nelle carceri, nei campi di concentramento. O come punizione per il tradimento. E poi la pratica di asportare lo scalpo dei nemici; tolta loro la vita, è sottratto anche lo spirito. Laddove è la religione a imporre di tener nascosti i capelli possono invece sorgere dei problemi, vedi Iran, dove il velo è ormai un crudo un fatto politico.

C'è chi se li taglia in segno di protesta, o di rivolta contro un sistema. La cantante Britney Spears, già idolo di folle di adolescenti, nel 2017 si rasò completamente la testa; forse si era stufata della propria immagine data in pasto al pubblico per fini speculativi. Lo stesso aveva fatto Sinead O'Connor, morta pochi giorni fa, e anche lei aveva qualche problemino nei confronti del sistema.

Will Smith ha ammollato in diretta planetaria una sventola in faccia al conduttore della notte degli Oscar Chris Rock per una battuta sull'alopecia della moglie. Tema sensibile, insomma, ma rinunciare volontariamente alla capigliatura è segno di rifiuto di un'identità sociale imposta. A meno che uno non lo faccia perché, semplicemente, sta diventando calvo, cosa che un tempo si potevano permettere solo Yul Brinner o il tenente Kojak, ma ora è abitudine comune, se non moda. La ragione è però la stessa: che fare dei nostri capelli è una scelta che ci qualifica come soggetti sociali.

In letteratura l'argomento è talmente vasto che non ha senso riassumerlo qui; Shakespeare, Petrarca, Baudelaire, Pope e mille altri, ovunque è tutto uno spargere trecce e tagliare ciocche, bionde o brune o rosse che siano. Meglio soffermarsi sul lungo spazio che il libro riserva alle parrucche. È in sé un piccolo trattato di sociologia, oltre che di storia del costume. Alla corte di Luigi XIV soprattutto, e in ogni ambiente dell'aristocrazia francese del tempo, la parrucca era una questione molto rilevante. Anche in senso volumetrico, viste le dimensioni: certe dame ne portavano di alte un metro. Ci volevano ore solo per installarle. Alla corte di Francia e prima che insieme alle parrucche per molti nobili cadesse tutta la testa, la figura del parrucchiere divenne autorevole, quasi necessaria. Nel 1772 in Francia, il manuale L'elogio dei coiffeurs a uso delle signore riporta 3774 modi di farsi sistemare i capelli. Il di costui Traité de la nature des cheveux di Tissot (1776) è un vero e proprio trattato di estetica.

Nel '900 la figura del parrucchiere fece il salto verso la stardom, un po' come è successo poi ai cuochi. Questi sono diventati chef, gli altri hair stylist. Nomi celebri: Kenneth Battelle, che cresce insieme al cinema della East Coast e affascina Jackie Kennedy. La prende e le trasforma la testa. Le alza i capelli sulla fronte per rendere il viso più verticale e gli zigomi più proporzionati. Via la permanente, sì ai bigodini per ottenere l'«effetto bouffant». E a Marylin regala un aureola di platino.

A Londra ci fu Vidal Sassoon, l'architetto dei capelli; a Parigi Louis Alexandre Raimon, o semplicemente Alexandre, il re dello chignon e della pettinatura a carciofo. In Italia negli anni '60 Celeste Vergottini impone il caschetto a Raffaella Carrà e a Caterina Caselli. Aggiustandole l'acconciatura, Jon Peters fa perdere la testa a Barbra Streisand.

Al suo taglio «shaggy» Jennifer Aniston deve parte della sua fortuna: in Friends, il taglio «alla Rachel», per quanto una versione deteriore dello «shaggy», diventa iconico.

È cruciale quello che abbiamo in testa, ma anche quello che sta sopra non scherza.

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