"Per diventare Eduardo" servono rigore e generosità

Nel romanzo Per diventare Eduardo Giuliano Pavone, attraverso la storia di Franco offre uno sguardo tra il reale e l'immaginario

"Per diventare Eduardo" servono rigore e generosità
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Quarant'anni dalla morte del grande Eduardo De Filippo, una figura che per molti è un'istituzione, mentre per altri è un nome ancora tutto da scoprire. I primi sanno quanto abbia inciso nell'immaginario teatrale e non solo, basti pensare all'attenzione di cinema e tv, a partire da Qui rido io di Mario Martone, sulla vita di Eduardo Scarpetta, o da I Fratelli De Filippo di Sergio Rubini, fino ad arrivare alla scelta della Rai di produrre ogni anno una fiction tratta da una sua opera. Ai secondi questa opera di rivitalizzazione del corpus eduardiano serve per affacciarsi sulla sua figura.

Nel romanzo Per diventare Eduardo (Laurana, pagg. 264, euro 18) Giuliano Pavone, attraverso la storia di Franco, un sedicenne di Taranto che nell'82 va a Roma per incontrare e intervistare De Filippo, offre uno sguardo tra il reale e l'immaginario sul genio partenopeo. Spiega l'autore: «Ho attinto a libri, interviste, video, testimonianze dirette. Misurandomi con un personaggio realmente esistito, sia pure in un romanzo, non potevo attribuirgli pensieri che non fossero i suoi». La storia di formazione di Franco, con il padre che ha una lunga e segreta amicizia con De Filippo, con l'Ilva a incombere, gli anni '80 e i colori pastello che riaffiorano nei ricordi di chi ha vissuto quel decennio, le città vissute (Roma e poi Milano), si muove con il ritmo di un film e l'anima di un'opera teatrale, con uno stile narrativo elegante e sobrio. Franco vuole fare il giornalista ma, dice Pavone, ha la sua forza nell'«aver capito che per raggiungere i propri obiettivi a volte si possono imboccare strade impreviste».

«Eduardo - sottolinea lo scrittore tarantino - all'inizio non regala niente a Franco, lo studia, lo mette alla prova, gioca un po' come fa il gatto con il topo. Dopo però si dona con generosità.

I suoi insegnamenti non erano mai teorici. Alla lezione e alle regole preferiva l'esempio. Anche ai suoi attori o agli allievi dei suoi corsi di teatro, dava una dimostrazione in prima persona e poi diceva E mo' facitelo a modo vuosto».

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