
Dalla Grande Bellezza alla Dolce Attesa il passo è breve, anzi brevissimo; e allora, dopo le Stanze Oniriche dello statunitense David Lynch tocca a un altro regista, stavolta il napoletano Paolo Sorrentino, far da testimonial al Salone del Mobile con una installazione sull'abitare nella sua accezione più esistenziale.
L'Attesa -quella forse meno dolce inizia in coda alle slinding doors che danno accesso, due persone per volta, a un lungo corridoio illuminato dalla luce rossa di due neon. A metà del corridoio, in un sottofondo sonoro ambient scandito da un battito cardiaco, si erge una sfera misteriosa e iridescente, probabilmente la metafora di un cuore pulsante che ipnoticamente accoglie i due visitatori trasportati lentamente da una chaise longue mobile. Al termine del corridoio, sotto lo sguardo dolce e un po' alieno di una hostess-infermiera, ci si trova davanti alla porta di accesso di un reparto di cardiologia, che è anche la porta di uscita. Finito.
L'esperienza proposta da Sorrentino ha un suo fascino nella rappresentazione della metafora dell'attesa come momento a-temporale e a-spaziale, rendendo un po' metafisico e surreale (altrimenti non sarebbe Sorrentino) quello che è un non luogo, vale a dire la sala d'aspetto. Figurarsi di un ospedale. Non mancano citazioni alla letteratura di fantascienza di un Arthur Clarke o Michael Chricton, e allora la sfera luminosa potrebbe richiamarci alla memoria il misterioso monolite di Odissea nello spazio; ma forse anche, con un pizzico di humor partenopeo, la macchina Orgasmatic di Woody Allen in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso. Ma è lo stesso Sorrentino a chiarire il significato del suo nuovo parto; anzitutto i riferimenti al contesto sanitario, tema sempre più attuale con l'invecchiamento della popolazione e il depauperamento del personale medico.
«Con La Dolce Attesa - spiega il regista - parliamo dell'attesa di un responso medico. Quel tipo di attesa diventa una sospensione. Rimaniamo appesi. Fermi, tesi, nervosi. E angosciati. E la sala d'attesa, così come è stata concepita fino a oggi, è solo un'amplificazione dell'angoscia. Tra pareti bianche, sedie scomode, monitor che proiettano numeri, impiegati scontrosi, si finisce per accanirsi ossessivamente sullo smartphone. Forse, allora, dovremmo ripensare l'attesa. Ingannarla. Viaggiare e perdersi nel viaggio come in un vago senso di ipnosi. Così, forse, aspettare può diventare meno penoso. Perché diventa altro. La nostra sala d'attesa vuole essere un'altra cosa. Non ti costringe a star fermo, ma ti lascia andare. Un piccolo viaggio, come da bambini, su giostre rassicuranti. Da adulti, i cavallucci sono diventati poltrone come gusci, come ventri materni. Gli impiegati riluttanti sono sostituiti da uomini e donne che ti riconciliano con un'idea di tranquillità. Ti sorridono e sanno regalare una carezza paterna. La vista si concentra su un coacervo di vetri smerigliati che occultano, deformano, l'unico elemento che, se continua a battere, ci allunga la vita. È il cuore. Nascosto, misterioso, eppure lui è lì, a ricordarci che non è ancora finita».
Per realizzare l'operazione, Sorrentino si è avvalso di due collaboratori d'eccezione: Margherita Palli, scenografa con quarant'anni di carriera, e coreografi come Yang Jiang, Daniel Ezralow, e da moltissimi premi, tra cui sei Premi UBU.
E poi il musicista Max Casacci, fondatore e chitarrista dei Subsonica, e compositore dell'ipnotica colonna sonora scandita dal battito cardiaco che accompagna la visita a Dolce Attesa: il battito animale che si aggrappa alla vita, o quello di un «core ingrato» che di questa vita ne ha abbastanza.
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