Un ripasso ci vuole, nel fervore delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità. Un ripasso che sia partecipe ma non agiografico, che restituisca alla nostra memoria le pagine belle o brutte della nascita d’una nazione divenuta Stato, che si tenga lontano dai revisionismi settari ma anche dalle mistificazioni edificanti.
Le pagine che ci accingiamo a pubblicare hanno, a mio parere, tutti questi requisiti. Non si tratta d’una narrazione compiuta ma d’una serie di rievocazioni, giudizi, medaglioni, citazioni utilissimi per ritrovare e valutare la nascita e l a crescita dell’Italia unita.
Quest’assemblaggio di informazioni e ritratti spiega molto meglio d’una diagnosi accademica cosa sia stata in buona sostanza l’Unità. Un miracolo, una conquista insperata, il frutto del genio di Cavour e dell’avventuroso coraggio di Garibaldi, ma anche un prodotto del «caso», il maggior demiurgo della storia. Dal caos uscì la nuova Patria degli italiani, carica di handicap e di frustrazioni, ma anche di speranze. Il 78 per cento della popolazione era analfabeta, con punte del novanta e passa nel profondo sud, al percorso risorgimentale erano rimaste del tutto estranee le masse contadine, si dovette aspettare l’inizio del secolo successivo perché il cinquanta per cento degli italiani fosse alfabetizzato.
Il regno sabaudo ebbe fin dall’inizio la zavorra della questione meridionale, e del «brigantaggio».
Su quest’ultimo Gianluca Formichi, autore dei testi, esprime un’opinione a mio avviso ineccepibile. Fu guerra civile? Questa la risposta: «L’applicazione della categoria di guerra civile alla repressione del brigantaggio in questi ultimi anni è avvenuta più sulla spinta di motivazioni legate alla politica e all’attualità che non su basi strettamente storiografiche. Ma che la si chiami guerra civile o insorgenza o ribellione, è altrettanto certo che gli anni intercorsi tra il 1861 e il 1865 videro qualcosa di più della semplice repressione di alcune bande di fuorilegge».
La rilettura ora in voga del Risorgimento - soprattutto la rilettura filoborbonica - tende a sminuire le sofferenze e il sacrificio dei patrioti, le forche austriache e lo Spielberg contano poco in confronto alle nefandezze piemontesi. Sono un ammiratore della saggezza amministrativa di cui diedero prova le autorità austriache nel lombardo-veneto. Ma non al punto da dimenticare che tra il 1848 e il 1849 il regio e imperial governo di Vienna eseguì 961 condanne a morte. Mi ha commosso la riproduzione della sentenza capitale contro Antonio Sciesa, tappezziere milanese, condannato all'impiccagione ma fucilato «per mancanza di giustiziere».
E i «martiri di Belfiore», che orribile vicenda. Catturati quei «cospiratori » - inclusi alcuni sacerdoti che credevano nell’indipendenza italiana - confessarono quasi tutti. «Don Enrico Tazzoli non negò i fatti ma non volle rivelare chi si celasse sotto pseudonimo. Alcuni arrestati morirono per le torture, altri si suicidarono. In totale furono eseguiti 110 arresti. Tazzoli e quattro altri patrioti furono impiccati a Belfiore il 7 dicembre 1852. A seguito della sentenza il vescovo di Mantova monsignor Corti fu costretto, su ordine del Papa, a procedere alla mortificante cerimonia della sconsacrazione di don Tazzoli».
Quegli italiani erano pronti a dare la vita per l’Italia non ancora nata.
Si può imputare imprevidenza, disorganizzazione, velleitarismo ai conati eversivi, ma davanti a un personaggio come Carlo Pisacane, napoletano, bisogna togliersi il cappello. Allo stesso modo non bisogna dimenticare che proprio la realizzazione dell’Unità «segnò per gli ebrei la fine della discriminazione, il definitivo abbattimento dei ghetti nonché il completamento del processo di emancipazione cui aveva dato inizio nel 1848 Carlo Alberto, re di Sardegna, allorché aveva concesso alla comunità ebraica piemontese la parificazione civile e giuridica».
È a mio avviso di particolare interesse quel capitolo della galoppata unitaria che pone in parallelo il Risorgimento e la Resistenza. La tendenza ad appropriarsi, propagandisticamente, del Risorgimento è stata di tutti i regimi italiani. L’ha fatto, in chiave monarchica, l’Italietta postcavouriana, l’ha fatto il nazionalismo interventista nella Grande Guerra che considerava l’annessione di Trento e Trieste come la conclusione del processo unitario, l’ha fatto il fascismo arrogandosi il merito di avere completato con Mussolini l’epopea risorgimentale e d’avere resuscitato la romanità.
L’ha fatto infine la Resistenza «rossa» nel nome di Garibaldi e di Stalin. Si è sempre voluto piegare il risorgimento al verbo di partiti e di demagoghi. Da lì i lamenti per il Risorgimento tradito, per la Resistenza tradita, per la Costituzione tradita. Profanazioni contro le quali insorgono poche e valorose anime belle.
Lasciamo da parte queste miserie faziose che appannano l’Unità d’Italia. Essa non fu solo fulgori ed eroismi, ci mancherebbe. Ma nel ricordo di queste pagine ci appare come un evento complesso, conflittuale, segnato da forti lacerazioni, e tuttavia grande, anzi grandioso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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