Roma - Ogni anno i nostri registi dicono: «Mai più a Venezia». Sarebbero più i rischi dei vantaggi, il fischio è preventivo, i critici disdegnano. E tuttavia, tra giugno e luglio, ecco la solita calca, con quello che minaccia «o concorso o niente» e l’altro che patteggia «mi va bene tutto». Stavolta, per scongiurare le solite fughe di notizie, Marco Müller ha ordinato ai suoi selezionatori di tapparsi la bocca; e pure lui, ben conoscendo la delicatezza del tema, s’è riservato di sciogliere le riserve sulla pattuglia italiana in gara al Lido attorno al 20 luglio (il 30 la conferenza stampa a Roma).
Non che siano molte le caselle rimaste da riempire. Due su tre, forse due su quattro. Di Baarìa, il kolossal di Giuseppe Tornatore sulla natia Bagheria, già si sa, ufficialmente: aprirà la Mostra il 2 settembre, in concorso. Sicuro anche Il Grande Sogno di Michele Placido, romanzo popolare sul Sessantotto, in chiave semi-autobiografica, con Riccardo Scamarcio nei panni di un celerino, appunto Placido da giovane, che lascia divisa e manganello dopo gli scontri di Valle Giulia per amore del teatro (pure di una studentessa). Il presidente di Medusa, Carlo Rossella, s’è fatto sfuggire l’indiscrezione in conferenza stampa, ma già Luca Argentero, uno dei tre protagonisti, aveva fatto la frittata (per la felicità di Müller).
Bocche cucite, invece, sul versante Raicinema. «Ci hanno chiesto di vedere alcuni film, glieli abbiamo mandati. Aspetto serenamente la risposta. Senza telefonare o fare pressioni. Del resto lei sa come la penso sui film italiani a Venezia», sdrammatizza Caterina D’Amico, amministratore delegato. Nondimeno, il toto-concorso dice che due titoli della casa sono a un passo dall’essere presi, anzi praticamente lo sono: Lo spazio bianco di Francesca Comencini, con Margherita Buy, L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, con Maya Sansa e Alba Rohrwacher.
Il primo, tratto dal romanzo di Valeria Parrella, racconta una storia individuale e intimista, tutta al femminile: il dramma di una donna quarantenne, Maria, insegnante in una scuola serale a Napoli, che partorisce Irene al sesto mese di gravidanza. Troppo presto per sapere se la bimba si salverà. Lo «spazio bianco» del titolo indica proprio quel doloroso stato di attesa, di fronte all’incubatrice. Cinque lettere, Irene, «a galleggiare in una vita-non vita. Non più feto, non ancora figlia», scrive la Parrella.
Il secondo, invece, è una storia corale, se possibile ancora più dolorosa: la strage nazifascista di Marzabotto. «Ma non sarà un film di guerra, semmai un film su come la guerra entra nella vita delle persone, distrugge le loro speranze, cambia le carte in tavola», confessò Diritti durante le riprese. Un salto notevole, in termini di impianto, per il regista del miracoloso Il vento fa il suo giro. Chi l’ha visto ne parla come di un film «alla Ermanno Olmi», dove l’attesa del massacro è vissuta attraverso gli occhi di una famiglia contadina, già segnata dalla morte di un figlio.
Salvo sorprese, sempre possibili ma non probabili, saranno questi i quattro italiani in gara. Un quartetto, come l’anno scorso, quando si sfidarono Ozpetek, Bechis, Avati e Corsicato. Troppi? Dipende dalla qualità. Del resto, Venezia ha finito con l’assolvere, piaccia o meno, un ruolo quasi «istituzionale» nella difesa di quel cinema nazionale spesso maltrattato a Cannes e Berlino. Si spiegherebbe anche così la decisione, contestata da chi teme «l’effetto recinto», di far rinascere la sezione Controcampo, interamente dedicata a proposte italiane.
Poi, certo, c’è la crisi, si produce meno. E però a decine si sono messi in fila per Venezia. Così se il ritorno del veterano Citto Maselli col suo Il fuoco e la cenere, una meditazione agra sullo stato della sinistra oggi in Italia, troverà spazio fuori concorso, ma in una posizione di pregio, molte sono le opere prime e seconde in pole position per le altre sezioni.
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