È ancora presto per dire se questo sarà l'anno del Dragone, ma i segnali in arrivo sembrano indicare che la Cina sta per uscire dalla palude economica in cui l'aveva confinata il Covid. Una lunga marcia forse all'atto finale per un Paese che, ancora stremato fra il dicembre del 2022 e lo scorso gennaio dal colpo di coda pandemico, si mostra ora con connotati rinnovati e più simile a quello che era prima delle terribili clausure di massa. Rottamata la «tolleranza zero», la Fabbrica del mondo si è rimessa in moto. E aspetta nuove misure, che saranno varate domenica prossima in occasione del Congresso nazionale del popolo, per cementare la ripresa economica. Ma, fin d'ora, è evidente lo iato rispetto al clima congiunturale plumbeo che aveva marchiato a fuoco l'anno scorso, fra i peggiori dell'ultimo mezzo secolo. È uno scarto avvertito da Moody's, sollecita nell'alzare le previsioni di crescita '23-24 dal 4 al 5%, ma soprattutto dall'andamento del settore manifatturiero, la linfa vitale per l'ex Impero Celeste. Mentre gli Stati Uniti flirtano con la stagflazione, Pechino ha visto in febbraio balzare l'indice Pmi dai 50,1 punti di gennaio a quota 52,6, la massima espansione dall'aprile 2012. È il segno di come, attenuatasi l'onda lunga dei contagi e finito il periodo delle vacanze di capodanno, le imprese abbiano accelerato la ripresa di lavoro e produzione. Così, la pressione sulle catene di approvvigionamento si è attenuata e i tempi di consegna sono migliorati.
Perché il puzzle della recovery sia del tutto completato, mancano all'appello due tasselli fondamentali: i consumi interni, in stallo; e la domanda estera, ancora debole. In prospettiva, una completa guarigione del gigante asiatico porta con sé il rischio di nuove tensioni inflazionistiche generate dalla rinnovata «sete» di energia della Cina. La «sindrome cinese» è l'ultima cosa con cui le principali banche centrali vogliono aver a che fare mentre la lotta al carovita è ancora in corso. La guardia resta infatti alta, con i falchi sempre più in pressing nella richiesta di mantenere la postura rigida sul fronte dei tassi. Gli ultimi dati rimbalzati dalla Germania, dove i prezzi al consumo sono rimasti il mese scorso invariati all'8,7% (il mercato prevedeva un 8,5%), sono andati di traverso ieri alle Borse (-0,7% Milano, -0,6% Francoforte) poiché fanno il gioco di chi fra i componenti dell'Eurotower non vuole abbandonare le barricate.
Il presidente della Bundesbank, Joachim Nagel, ha infatti subito colto la palla al balzo per ammonire che la stretta di marzo (di mezzo punto, secondo Goldman Sachs) «non sarà l'ultima. Ulteriori significativi passi sui tassi potrebbero essere necessari anche dopo».
Il capo della Buba è favorevole a un intervento a tenaglia che, oltre all'irrigidimento della politica monetaria, contempli anche un «percorso più rapido» nel quantitative tightening, cioè la riduzione dello stock di bond in pancia all'istituto guidato da Christine Lagarde. Ancora più radicale Raphael Bostic, presidente della Fed di Atlanta: «Continuo a credere che dovremo alzare i tassi al 5-5,25% e lasciarli lì fino al 2024». A Occidente la lunga marcia non è ancora finita.
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