«Giorno storico, inizia un nuovo capitolo. Le importanti riforme messe in atto dalla Grecia hanno preparato il terreno per una ripresa sostenibile», declama il commissario Ue per gli Affari economici, Pierre Moscovici. Copia-incolla del numero uno della Commissione europea, Jean-Claude Juncker: «I cittadini greci iniziano un nuovo capitolo nella loro storia». Piccola variazione sul tema dal presidente dell'Eurogruppo e del board dell'Esm (il fondo salva-Stati), Mario Centeno: «Il Paese per la prima volta dal 2010 sta in piedi da solo». Mancavano solo le grida di giubilo per festeggiare ieri l'uscita di Atene dal piano di assistenza finanziario, che ha garantito prestiti per un totale di quasi 290 miliardi di euro in cambio dell'arrivo sul suolo ellenico degli squadroni dell'austerity. Un modus operandi fatto di tagli alle pensioni, compressione dei salari e svendita del patrimonio pubblico che tanto deve piacere al nostro ex presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni: «Tsipras - commenta in un tweet - ha salvato il suo Paese con riforme e senso di responsabilità. Chapeau».
E già: giù il cappello, gesto familiare per chi da quelle riforme è stato rovinato. Non pochi, magari, fra quel 21% della popolazione ridotto in povertà, il doppio rispetto a otto anni fa.
Il problema, però, non è l'apologia del rigore fatta ieri da Bruxelles&Soci, ma se la cura da cavallo alla quale è stata sottoposta la Grecia l'abbia davvero messa in grado di farcela da sola. Senza mai dimenticare che Atene non ha riacquistato la piena sovranità, ma resta una sorvegliata speciale soggetta all'attuazione delle riforme già concordate e non ancora attuate, il primo dato che dovrebbe corroborare l'idea di una ritrovata sostenibilità è quello del ritorno alla crescita. Un +1,4% nel 2017 cui dovrebbe seguire quest'anno un'espansione del 2%. «Meglio dell'Italia», ha detto qualche osservatore. Che magari dimentica di ricordare come il Paese governato da Alexis Tsipras abbia bruciato, dal 2010, il 25% del Pil e sia dunque ben lontano dal recuperare i livelli pre-crisi. Una missione forse impossibile per chi, ora, poggia la propria crescita praticamente solo sul turismo dopo aver (s)venduto il patrimonio statale a cinesi (porto del Pireo alla Cosco), tedeschi (aeroporti) e anche italiani (le ferrovie alle Fs). Di sicuro la Grecia non può affidare la propria ripartenza ai consumi, a causa dell'erosione subita dal potere d'acquisto (-28% dal 2008) e dei tagli inferti agli assegni pensionistici (-13%), destinati peraltro a un'ulteriore decurtazione nel 2019. Soprattutto, la Grecia ha un deficit di spese private e gettito fiscale per l'ancora elevato livello della disoccupazione, scesa sì di sette punti percentuali rispetto al picco del 2013 (27%) ma ancora circa otto punti sopra rispetto al 2010. Di fatto, sono inoltre stati smantellati gli ammortizzatori sociali: chi è senza un posto da tempo incassa appena il 7% di quanto percepiva prima del licenziamento contro il 55% garantito nella Repubblica ceca e il 68% in Lussemburgo. E chi un lavoro ancora ce l'ha, deve far fronte alla mannaia delle tasse, il 40% su uno stipendio medio mensile di 900 euro, contro il 14% versato dai contribuenti in Irlanda.
Provvedimenti, definiti da qualcuno di «macelleria sociale», incapaci comunque di intaccare la montagna del debito, salito dal 126% del Pil del 2009 all'attuale 180% per effetto della disastrosa applicazione del moltiplicatore fiscale, che secondo il Fondo monetario internazionale doveva essere pari a 0,5 quando in realtà è stato cinque volte più alto, data la fragilità del sistema greco.
Un errore costato caro in termini di Pil e maggiore disoccupazione (al 25% contro il 15% previsto), ammesso a scoppio ritardato dallo stesso Fmi. Che, forse per rimediare, si batte da tempo per ottenere un taglio del debito greco. Senza il quale la Grecia non può stare in piedi con le proprie gambe.
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