Il settore assicurativo, in controtendenza rispetto a tutti gli altri comparti produttivi italiani, non ha tagliato posti di lavoro, durante la pesante recessione degli ultimi cinque anni. Al contrario, anno dopo anno, l’occupazione del comparto è aumentata, anche se di poco. Secondo i dati Ania, a inizio 2013 i dipendenti delle compagnie erano, 47.712: 42.498 amministrativi (che comprendono circa 4 mila dipendenti di società controllate da imprese di assicurazione a cui è applicato il contratto assicurativo e 1.126 dirigenti) e 5.214 produttori. La grande maggioranza delle risorse umane assicurative ha contratti a tempo indeterminato e le retribuzioni non hanno avuto né incrementi né decrementi significativi. Non è detto però che la situazione resterà invariata per sempre. Le grandi riorganizazioni e le fusioni che si stanno perfezionando potrebbero avere ripercussioni anche sulla forza lavoro. Non è un caso che le compagnie rimettano mano al Fondo di solidarietà di categoria. Il primo avviato in esecuzione della legge Fornero, che potrà essere utilizzato per prepensionamenti (al massimo a cinque anni dalla pensione), riduzione delle ore lavorative o per la riqualificazione del personale. Interventi di cui finora il settore, in realtà, non ha avuto bisogno perché a differenza del comparto bancario le compagnie non sembrano avere problemi di esuberi. I bilanci delle assicurazioni appaiono più solidi rispetto a quelli bancari e soprattutto il modello distributivo, caratterizzato dalle agenzie, ha costi più flessibili rispetto alle filiali. Inoltre, dove ce n’è stato bisogno, le compagnie hanno gestito internamente le riorganizzazioni, facendosi carico degli esodi incentivati. Ma con le operazioni di integrazione che si stanno per chiudere in Italia, da Unipol-Fonsai alla riorganizzazione delle controllate italiane di Generali, il fondo potrebbe rivelarsi utile, anche perché potrebbe essere utilizzato non solo in caso di crisi aziendale, ma anche per la gestione di processi di ristrutturazione, che possano avere ricadute sull’organizzazione del lavoro e sui livelli occupazionali. Insomma, le imprese assicuratrici si mostrano preoccupate dei loro dipendenti ancor prima che si presenti la possibilità di interventi sulle risorse umane. In questo quadro tutto sommato positivo, vista la situazione del Paese, c’è qualche criticità. Snfia, il sindacato nazionale funzionari imprese assicuratrici, ha pubblicato il volume Il Mercato assicurativo: la sfida delle alte professionalità in Italia che presenta i risultati di una ricerca svolta su un campione di dirigenti e quadri (gli intervistati sono stati 1.069). Il volume, accanto a interviste e contributi inediti a cura di Carlos Montalvo (direttore di Eiopa), Domenico De Masi, Pasquale Natella (partner di Key2People) e Marco Falchero(senior manager PwC), mette in evidenza le contraddizioni di questi lavoratori, che sono poi quelle più generali del ceto medio italiano. Una categoria che riveste un ruolo strategico per la competitività delle aziende, in quanto promotrice dell’innovazione. Ma l’organizzazione aziendale penalizza le competenze di dirigenti e quadri e ne frustra l’ambizione di contribuire al successo dell’impresa.
Condotta tra aprile e maggio 2012, l’indagine vuole essere una piattaforma per stimolare il dialogo con la parte datoriale, oltre i perimetri della relazione industriale tradizionale. Dalla ricerca è emerso che di fronte a una congiuntura economica sempre più critica e a una percezione di scarsa valorizzazione (in termini di ruolo, esperienza, condivisione degli obiettivi/comunicazione), le alte professionalità assicurative si trovano in una condizione di grande fragilità. Ma è davvero così? E quali sono i dati emersi nella ricerca? Se ne è discusso in una tavola rotonda organizzata da Snfia e moderata da Angela Maria Scullica, direttore di Giornale delle Assicurazioni, BancaFinanza ed Espansione. Al dibattito hanno partecipato Maurizio Arena, segretario generale Fadap (Federazione autonoma delle alte professionalità); Maurizio Baravelli, professore di Economia e gestione della banca all’università La Sapienza di Roma; Luigi Caso, direttore relazioni industriali di Ania; Marino D’Angelo, segretario generale di Snfia (sindacato nazionale funzionari imprese assicuratrici); Franz Foti, docente di comunicazione pubblica e istituzionale presso l’università degli studi dell’Insubria; Davide Pelucchi, responsabile relazioni industriali del gruppo Generali Italia; e Giuseppe Santella, direttore risorse umane del gruppo Unipol.
Domanda. Dai dati della ricerca emerge uno stato di malessere delle alte professionalità. Come mai?
D’Angelo. È indubbio che il mondo assicurativo stia vivendo un momento di grandi trasformazioni. Trasformazioni che ricadono direttamente sul nostro modo di lavorare e quindi di essere e di sentirci lavoratori. Un cambiamento che riguarda e deve riguardare in massima parte chi questi lavoratori li rappresenta. Snfia da tempo lavora per un salto organizzativo e culturale in grado di riportare l’azione sindacale a una reale rappresentanza dei nuovi bisogni del mondo del lavoro. Come sindacato abbiamo avvertito la necessità di avviare una indagine conoscitiva sul sentiment di chi lavora quotidianamente nelle compagnie, realizzando un fondamentale strumento di orientamento della nostra agenda sindacale. I risultati hanno evidenziato la condizione di forte disagio in cui vivono i funzionari e i quadri assicurativi. Un disagio che con grande lealtà non viene riferito tanto alle condizioni materiali del lavoro, a partire dagli aspetti logistici e fino a quelli retributivi, quanto alla presa di coscienza della incertezza del proprio destino professionale. La sfida della modernità in termini di innovazione e flessibilità sembra impegnare le imprese per i soli risvolti immediati e operativi, che dagli intervistati vengono infatti giudicati adeguati. Per altro verso, le imprese continuano a ricercare l’utile attraverso un semplice percorso di spending review, non cogliendo la necessità di un deciso cambio di passo organizzativo, che ponga il valore uomo al centro dei processi di lavoro. Sburocratizzazione, condivisione della vision, senso di appartenenza, ricerca e incentivazione dei talenti, valorizzazione delle diversità, pur riconosciute come uniche condizioni di sviluppo economico e sociale, sembrano non aver trovato ancora dimora nel panorama delle imprese assicurative italiane.
Da qui la crisi professionale e personale del middle management, che denuncia il reale livello di efficienza ed efficacia delle aziende.
D. Quali sono i punti critici?
D’Angelo. L’aggiornamento professionale è uno snodo essenziale quando si parla di dequalificazione: il 61,5% degli intervistati si dichiara soddisfatto della formazione specifica che riceve, mentre su quella non strettamente collegata alla operatività il dato si capovolge e circa il 50% dice che non c’è, non viene erogata. La mancanza di questo ’aggiornamento’, che significa anche un allargamento dei saperi, fa nascere la sensazione che non vi sia attenzione alle potenzialità delle singole professionalità: i talenti non vengono riconosciuti, né favoriti. Per quanto riguarda l’innovazione, il 76,3% sostiene che l’azienda fornisce la dotazione tecnica sufficiente per svolgere la propria funzione. Le compagnie investono in tecnologia, nella digitalizzazione dei processi, e il 65% dà un giudizio positivo sul sistema informatico che per il 51,8% è moderno ed efficiente. Tutto questo, però, non ha ridotto il formalismo e la farraginosità tipici dell’ambiente assicurativo che blocca anche la possibilità di un apporto personale allo sviluppo di nuovi prodotti, di nuovi processi: il 74,6% degli intervistati sostiene, infatti, che l’azienda combatte poco o nulla contro la burocrazia e per il 63% non c’è spazio per le idee innovative a tutti i livelli gerarchici. Una situazione che si ripercuote sulla professionalità: il 44,7% afferma che il modello organizzativo ha di fatto determinato uno svuotamento delle proprie mansioni e per il 43,2% ha portato alla dequalificazione del proprio ruolo. Sostanzialmente emerge l’insoddisfazione per la mancanza di autonomia e l’impossibilità di partecipare realmente alla gestione dell’azienda. Le alte professionalità si sentono messe in un angolo, segregate, con una scarsissima condivisione della vision con il top: il 56% dichiara addirittura di non essere informato delle strategie aziendali. Alla domanda “sei soddisfatto/soddisfatta delle prospettive di evoluzione professionale che esistono nella tua azienda?” il 69,2% ha risposto no. E il 76,5% è convinto che i cambiamenti nell’organizzazione (come la digitalizzazione dei processi) avranno un impatto negativo sul proprio ruolo. Nell’area delle performance, le colleghe e i colleghi che hanno partecipato all’inchiesta dichiarano che gli obiettivi assegnati sono chiari (62,1%) e che riescono a raggiungerli (88,6%). E questo è facilmente rapportabile allo sviluppo, in controtendenza rispetto ad altri settori, del mondo assicurativo: le prime indicazioni Ania per il 2013 danno un fatturato in crescita dell’8,8%. Si ha però l’impressione che nelle aziende convivano due mondi separati, tutti e due autoreferenziali: una parte della azienda che produce la vision, le strategie, gli investimenti e un’altra che si autogratifica con l’operatività quotidiana, raggiunge i risultati prefissati, senza vedersene riconosciuti i meriti. È quasi ovvio allora che il 71,8% manifesti un forte disagio. Carichi di lavoro troppo gravosi (65%), ritmi di attività eccessivi (64%), sovraccarico cognitivo (47,3%) sono le principali aree di criticità. A livello retributivo emerge chiaramente l’insufficienza del sistema meritocratico premiante: per il 69,4% è poco o per nulla adeguato. Ancora una volta uno scarso riconoscimento del merito.
Foti.La condizione di disagio, riscontrata dall’inchiesta, è la stessa che vive oggi il ceto medio ed è soprattutto una questione di autostima e di considerazione sociale, perché, attualmente, non si pone al centro dell’attenzione il merito. La middle class ha perso potere : era la componente sociale maggioritaria che sosteneva i governi e aveva un peso importante all’interno delle imprese. Ora per effetto della crisi vive un’identità frantumata e un netto declino di ruolo. La recessione genera poi, nei confronti del ceto medio professionale, una modifica strutturale del suo potere perché muta e depotenzia le gerarchie, le fungibilità delle prestazioni, i percorsi di carriera e le remunerazioni. Anche l’innovazione tecnologica e l’organizzazione del lavoro contribuiscono a modificare, di conseguenza, il valore di mercato delle professioni. Stiamo passando da un modello piramidale a un modello orizzontale, che frena la scalata veloce nella carriera. La crisi ha ridotto il potere di scambio dei ceti medi, anche professionali, e reso impraticabile la filosofia dell’insostituibilità qualitativa e quantitativa di non pochi ruoli. Che fare, allora? A mio avviso bisogna puntare molto sul merito, che deve assumere caratteristiche nuove dal punto di vista negoziale e avere due caratteristiche: una di tipo sociale, come parte basilare della contrattazione collettiva con l’identificazione precisa di fasce professionali, e una di tipo personale, strettamente legata al valore aggiunto che produce il singolo lavoratore. Sotto questo profilo andrebbero ripensati e riformulati la natura e le dinamiche della contrattazione nazionale e aziendale. Occorre che il merito sia visibile e misurabile, distinguendolo dal valore della produttività collettiva o di gruppo che rappresenta un’altra faccia della contrattazione.
D. Ma è possibile oggi dare questo tipo di valorizzazione all’interno delle compagnie?
Santella.Il senso di svuotamento del ruolo molto spesso è legato al gigantismo delle imprese. Nelle piccole compagnie la distanza tra il vertice e i livelli inferiori è molto breve: si tratta di persone che si conoscono, che vivono e respirano la stessa aria. Nei grandi gruppi inevitabilmente la distanza cresce. Quando si aggregano realtà di notevoli dimensioni, occorrono anche nuove regole, diverse da quelle precedenti, magari basate sul contatto diretto. È vero: darsi un ordine, un metodo, una organizzazione può spingere verso la burocrazia. Ma i grandi gruppi si governano cercando di mettere una serie di elementi nodali, di regole comuni, perché le aziende riescano a funzionare in modo coerente. Si viene criticati per la produzione di ordini di servizio, procedure, disposizioni interne, ma si tratta di azioni indispensabili se vogliamo far funzionare una macchina che diventa sempre più complessa. È necessario che anche nell’ufficio più periferico le risorse umane siano informate sull’organizzazione, sappiano da chi dipendono, quali sono le strategie e le regole da rispettare. La formazione è un aspetto fondamentale. Le compagnie spesso tendono a fare quello che serve subito. Esce una nuova normativa, viene preparato un nuovo prodotto? Si mandano i manager ai corsi di aggiornamento. C’è sempre meno tempo per programmare e investire sulla competenza manageriale delle persone, anche perché il ritorno si ha in tempi più lunghi. Io credo, invece, che sia indispensabile lavorare sia su un insieme di interventi continui formativi culturali e manageriale sia su un sistema di criteri meritocratici, obiettivi e misurabili, da applicare a tutta la popolazione aziendale. Ed è ancora più necessario farlo in momenti di grande discontinuità, come quelli che stiamo vivendo in Unipol, quando ci sono aziende con culture diverse che devono essere amalgamate, rese coese, con un senso di appartenenza unico e obiettivi condivisi. A proposito di merito, nella fusione che stiamo facendo ci sono logiche, policy di risorse umane e incentivi completamente diversi da compagnia a compagnia. Dovremo armonizzarli, perché non è possibile che persone che lavorano gomito a gomito abbiano trattamenti differenti. Qui conteranno i criteri oggettivi per far capire che una società non prevarica l’altra, che non sono premiati solo i funzionari dell’azienda che ha fatto l’acquisizione e non c’è nessuna intenzione di colonizzare.
Caso. Il disagio che emerge dalla ricerca traspare anche dalle relazioni che viviamo all’interno delle aziende e non riguarda solo le alte professionalità. Tale situazione è, a mio avviso, in parte riconducibile ad alcune difficoltà che a volte imprese e lavoratori hanno incontrato nel gestire i processi di ristrutturazione aziendale e riorganizzazione societaria che hanno interessato il settore assicurativo dalla fine degli anni ’90. Probabilmente tali processi non sempre sono stati accompagnati da una adeguata revisione delle procedure di gestione del personale e/o da efficaci iniziative di comunicazione aziendale. In tali fasi di cambiamento le alte professionalità si sono di fatto viste “compresse” tra le aspettative e le ambizioni delle giovani “leve” e la necessità del management di ridefinire il proprio ruolo. Ritengo che possano essere questi i motivi del “sentirsi” lontano dalla “vision” aziendale e, al tempo stesso, “poco riconosciuti” nel merito e nelle competenze. Siamo di fronte a una situazione che richiede un riesame di questi aspetti, ma anche una nuova impostazione dell’assetto contrattuale normativo. Quando parliamo di professionalità non possiamo infatti scindere questo concetto dalla definizione di mansioni e dalle modalità di svolgimento delle stesse. Peraltro, la declaratoria contrattuale relativa ai funzionari prescinde oggi quasi del tutto da contenuti professionali, limitandosi a far riferimento solo ad aspetti di tipo gerarchico. Ad esempio, il nostro contratto definisce - in modo semplicistico - funzionario di secondo grado colui che coordina un funzionario di primo grado, ma nulla dice circa le caratteristiche e i contenuti dei diversi ruoli. Se vogliamo migliorare l’efficienza delle imprese e valorizzare professionalità e meritocrazia dovremo pertanto superare anche certe rigidità contrattuali, parlando di flessibilità organizzativa e delle mansioni, temi da tempo sottoposti all’attenzione dei sindacati.
Pelucchi. Un elemento del disagio è che fino a vent’anni fa il funzionario era soprattutto un capo. Oggi - se non sempre, molto spesso - è un professional. E di capi ce ne sono e ce ne saranno sempre meno. È un aspetto che pesa sulla considerazione sociale del ruolo, ma dobbiamo prendere coscienza che il prestigio professionale dovrà sempre più legarsi al contenuto. Contro questa evoluzione non c’è nessun rimedio… è la forza delle cose e deriva principalmente dalla digitalizzazione. Nel Gruppo Generali, quindici anni fa come ora, diventare funzionario è uno step importante: c’è una selezione interna tradizionalmente rigorosa, che dà prestigio al ruolo. Nei grandi gruppi assicurativi, l’operatività dei funzionari ancora adesso è molto qualificata, rilevante e di profondo contenuto professionale. Certo, esistono delle preoccupazioni legate ai cambiamenti, le grandi ristrutturazioni in corso incidono sul percepito e sulle attese delle persone. Credo si debbano progressivamente sviluppare a tutti i livelli, nel campo contrattuale e in quello dei modelli di gestione, approcci più moderni e dinamici che, se consistenti, saranno più premianti di ogni altro intervento. Il gruppo Generali in Italia sta affrontando un cambiamento epocale, con grande collaborazione e coinvolgimento dei funzionari, e con la partecipazione del sindacato attraverso meccanismi di confronto più moderni e in logica win win. Finora stiamo procedendo con reciproca soddisfazione. Con il Sindacato Funzionari stiamo ragionando informalmente su come accordi moderni e sperimentali possano attenuare le rigidità dell’inquadramento nelle fasi di ristrutturazione e preservare e se possibile valorizzare le professionalità del singolo nella specifica situazione aziendale. Questi ragionamenti sono atti di responsabilità verso le risorse. Oggi ci troviamo di fronte a nodi molto complessi da dipanare, che vanno gestiti con atteggiamenti di reciproca attenzione e fiducia. Per quello che riguarda gli aspetti di comunicazione delle strategie e di coinvolgimento, vedo un’attenzione crescente nel gruppo Generali, come in altri. Se penso al passato non posso non notare che le compagnie hanno fatto passi da gigante nella capacità di informare e coinvolgere le risorse umane. Anche se in questo campo è difficile generalizzare, ogni situazione vive aspetti molto, molto specifici.
Santella. Il funzionario era - ed è anche ora nelle piccole realtà - il deus ex machina, un polivalente per definizione: doveva saper fare tutto e saper decidere su tutto. Adesso si va invece verso una spinta più specialistica. E, a questo punto, è forse è necessario che anche il funzionario si interroghi sul proprio ruolo e metta in discussione le regole, le facilitazioni, le abitudini del passato. È giusto pretendere la formazione, i sistemi incentivanti, la meritocrazia, ma è altrettanto giusto che l’azienda chieda al funzionario la capacità di cimentarsi in contesti e attività diverse. La mobilità territoriale e funzionale non possono essere più un tabù, le capacità manageriali sono sempre più richieste. Alle competenze tecniche vanno aggiunte le capacità di gestione delle persone e di organizzazione del lavoro altrui.
D. I funzionari sono propensi a rimettersi in gioco per diventare più manager?
Arena. Iovengo dal mondo del credito. Leggendo la ricerca e ascoltando gli altri interventi mi sono reso conto che alcuni problemi bancari sono sovrapponibili a quelli assicurativi, mentre su altre questioni gli istituti di credito sono a uno stadio più avanzato, che vuol dire peggiore. La necessità di cambiamento, che esiste nel mondo assicurativo, spero porti a soluzioni radicalmente diverse da quelle attuate nel settore finanziario. Negli anni Novanta, il sistema bancario era ancora una ‘foresta pietrificata’ - come le definì Giuliano Amato quando era ministro del Tesoro - con regole e processi vecchi di secoli. Il mondo cambiava e bisognava adeguarsi. Il mutamento è avvenuto nella maniera sbagliata perché è stato snaturato l’anello di trasmissione che, al di là dei modelli organizzativi, gerarchici o professionali, consentiva ai messaggi del top management di arrivare alle agenzie, al più piccolo terminale e di arrivarci in maniera corretta. È stata, invece, scelta la strada di togliere di mezzo questo collegamento. In banca non ci sono più funzionari ma quadri direttivi: così se nel 1999 il 13% delle risorse umane era composto da funzionari, oggi il 50% del personale è formato da quadri direttivi. È una aberrazione realizzata dagli istituti di credito, anche sullo stimolo negativo delle organizzazioni sindacali, per le quali probabilmente abbassare i livelli era, in termini di democrazia del lavoro, una conquista: peccato che il tempo abbia dimostrato la miopia di questa scelta. Nel settore del credito i processi di riorganizzazione sono stati devastanti sotto il profilo numerico e delle modalità con le quali sono stati compiuti. Non credo che oggi ci sia un ex-funzionario di banca che non abbia cambiato almeno quattro, cinque o sette lavori, qualche volta non troppo contigui l’uno con l’altro. Che non ci debba essere più una valutazione gerarchica del ruolo ma una valutazione in termini di flessibilità organizzativa, è scontato. Meno scontata è la coerenza di questi cambiamenti. Vediamo masse di professionisti che volano da una parte all’altra, seguendo il modello organizzativo al momento dominante, poco convinti, talvolta scettici rispetto a certi cambiamenti, con la consapevolezza che, comunque, la loro esperienza professionale non verrà tenuta in considerazione. Penso che questa sia la frustrazione peggiore per un quadro. Insomma, il cambiamento ci deve essere anche nel mondo assicurativo: attenzione però a farlo con intelligenza, non con lo spirito e i metodi delle banche, che sono, oltretutto, di breve periodo perché i risultati vanno raggiunti la settimana dopo, non nel trimestre. Qualsiasi mutamento deve tenere in considerazione la professionalità, l’esperienza e un’armonica distribuzione delle responsabilità all’interno di una organizzazione.
Baravelli. Il disagio rilevato dall’indagine Snfia non sembra provocare una riduzione delle performance, almeno da quanto emerge dalle risposte. Ciò significa che funzionari e quadri ammortizzano la loro insoddisfazione con lo stress e la frustrazione. Ma se dovesse continuare potrebbe costituire una grave debolezza perché, in un settore dove la competitività non è delle più alte, non si può avere più del 30% di personale demotivato. La demotivazione sembra legata, nel vissuto degli intervistati, soprattutto alla mancata valorizzazione della loro professionalità e al non riconoscimento del loro potenziale mentre retribuzione, sicurezza, strumenti tecnici e ambiente di lavoro non sono messi in discussione. In realtà disporre di adeguati supporti tecnici, i cosiddetti fattori igienici, non è di per sé condizione motivante, mentre la loro assenza può demotivare. Il problema è che nelle organizzazioni burocratiche dove prevale il lavoro amministrativo e vi sono limitate possibilità di disegnare mansioni con rapporti diretti con il cliente, come nelle assicurazioni in cui sono delegati alle reti agenziali, la motivazione del personale è una questione complessa. Bisogna anzitutto evitare di considerare il personale solo un mezzo di attuazione della strategia coinvolgendolo nei processi decisionali e utilizzandone il potenziale di creatività, di idee e di esperienza per il miglioramento e l’innovazione aziendale. Diventa di conseguenza centrale lo stile di direzione. Quando i funzionari e i quadri dicono che non c’è relazione con i capi, significa che essi operano in un contesto burocratico e impersonale e che la nozione di forza lavoro prevale su quella di persone e di collaboratori. I funzionari e i quadri sono sensibili all’achievement, ossia al successo e alla propria realizzazione con il lavoro, ma queste aspettative nel mondo bancario-assicurativo, che studio ormai da 40 anni, sono contrastate da una cultura aziendale che guarda spesso solo ai risultati e non alle persone. Per uscire da questa situazione occorre un cambiamento di stile di direzione e riorganizzare il lavoro. Anche perché l’affermarsi di modelli aziendali snelli, per rispondere alle esigenze di efficienza, riduce le possibilità di carriera direttiva. L’Ict consente lo snellimento organizzativo ma produce lo svuotamento delle competenze se non si riorganizzano i processi di lavoro. Altrimenti i funzionari e i quadri rischiano di rimanere in azienda in modo residuale senza un’identità, anche con tutta la loro buona volontà di fare bene il loro lavoro. Si tratta di attuare politiche di job enrichment, e non solo di job enlargement, creando ruoli globali con un certo grado di autonomia decisionale e di responsabilità e provvisti di canali di feedback. E con l’obiettivo non del semplice task specializzato ma, per esempio, del risultato complessivo rispetto a un segmento di clientela o una determinata zona geografica. Noi dovremmo arrivare ad avere compagnie assicurative che siano soprattutto società professionali, nelle quali il professionista con ruoli globali sarà la figura chiave, dove vi saranno meno ruoli operativi e una gerarchia snella fondata sul merito. Ovviamente occorre avere una visione strategica del personale e prevedere quali saranno le principali famiglie professionali onde favorire senza traumi i necessari processi di transizione.
Foti. Oggi stiamo vivendo un grande processo di polarizzazione: il top management da una parte e l’operatività dall’altra (fasce basse e medio-basse professionali). Si è generato un vuoto importante fra le due partizioni aziendali. La mia idea è di trasformare il modello piramidale in uno più orizzontale: abbassare il baricentro della struttura gerarchica e redistribuire maggiormente le funzioni a livello orizzontale sia in termini di creazione di comunità professionali sia in come multiposizionalità della prestazione singola. Si otterrebbe maggiore cooperazione, innovazione e scambio, più creatività e produttività, elevato valore aggiunto. Quattro sono gli elementi chiave: innovazione, formazione, merito e comunicazione, che, oggi, non è considerata un valore intrinseco d’impresa. L’Oréal, uno dei più grandi player mondiali della cosmesi, ha realizzato un grande progetto di change management. L’azienda ha introdotto una serie di importanti innovazioni di prodotti e di processi, e per questo ha realizzato una campagna di formazione globale che ha interessato il 92% del personale. Un esempio da imitare, anche nel campo assicurativo finanziario.
D’Angelo. Mi sembra che dalla discussione siano usciti tanti spunti interessanti a livello gestionale e anche contrattuale. Vorrei solo aggiungere una riflessione. L’indagine sottolinea che le alte professionalità hanno l’esigenza di ritrovare un ruolo all’interno dei modelli di gestione.
Ma gli intervistati non dicono che non si riconoscono nelle imprese. Al contrario, sono disponibili al confronto con le compagnie, ma ancora una volta vogliono che venga riconosciuto il loro ruolo. Si tratta di una disponibilità che può portare valore alle imprese e che non va delusa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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