Il segreto bancario è sotto scacco. Il pressing dei paesi più potenti al mondo ha, infatti, dato i suoi frutti: i paesi che ancora garantiscono l’anonimato ai loro clienti stranieri stanno, in forme e tempi diversi, adeguando la loro legislazione. Una scelta quasi obbligata, dato che l’aut aut del Gafi (il gruppo azione finanziaria del G20) era chiaro: chi non rinuncerà a garantire riservatezza ai clienti, verrà inserito nella cosiddetta black list. Il che equivarrebbe a una perdita rilevante di business internazionale.
Così, uno dopo l’altro, cadono i bastioni del segreto bancario. Lussemburgo e Austria, che in ambito Ue erano i paesi che più tutelavano la privacy dei correntisti, hanno dovuto accettare obtorto collo lo scambio automatico di informazioni, che partirà a inizio 2015. Così hanno fatto la Repubblica di San Marino e il Liechtenstein. Singapore chiuderà i conti dei clienti definiti “non trasparenti”, allentando la sua proverbiale riservatezza. E la Svizzera - che già aveva ammorbidito il segreto bancario e da tempo non poteva più essere definita un paradiso fiscale - ha introdotto lo scambio automatico delle informazioni (che, però, non potrà dirsi definitivo prima di un molto probabile referendum). Intanto, però, le banche elvetiche giocano d’anticipo, per evitare di trovarsi spiazzate in un secondo tempo, e avvertono i correntisti di rinunciare all’anonimato o chiudere il conto. Una cosa non da poco, dato che si stima che nei forzieri delle banche elvetiche ci siano tra i 100 e i 180 miliardi di euro di cittadini residenti in Italia, su un totale di 200-300 non dichiarati che si pensa siano depositati in tutto il mondo. Somme, queste, che fanno tremare i polsi, soprattutto se confrontate con i 45 miliardi di euro (di cui metà in immobili) regolarmente dichiarati all’estero.
Il tramonto dell’anonimato non significa, però, fine dei depositi bancari oltre confine. Varie ragioni (non ultima l’instabilità dei paesi d’origine e l’affidabilità di quelli di destinazione) potrebbero convincere molti cittadini di varie parti del mondo all’esportazione di capitali che risulti “regolare” per lo stato in cui sono residenti. Di questo si è parlato nella tavola rotonda Il countdown del segreto bancario: la gestione fiscale e l’emersione dei patrimoni all’estero, organizzata da AlpenBank Ag con la collaborazione di BancaFinanza. Il dibattito, coordinato dal direttore Angela Maria Scullica, ha visto la partecipazione di Michael Atzwanger, consigliere di gestione di AlpenBank Ag Innsbruck, Aut (con succursale a Bolzano), Giovanni Bandera, dottore commercialista dello studio Pedersoli e associati, Marco Bolognesi, presidente di Argos, Fabio Galli, direttore generale di Assogestioni, Heinz Peter Hager, dottore commercialista dello studio Hager & partners, e Luca Venturini, direttore di Banca privata Edmond de Rothschild Lugano Sa. Ed ecco che cosa è emerso.
Domanda. Fra cinque-dieci anni il segreto bancario sparirà in tutto il mondo, o quasi. Chi depositerà all’estero, perderà quindi l’anonimato. Per quale motivo un cittadino italiano, o tedesco, dovrebbe ancora mettere i propri soldi in Austria, o in Svizzera?
Atzwanger. Non sarà più possibile esportare denaro per nascondersi al fisco, è vero. Ma questo non vuol dire che i cittadini rinunceranno a portare i loro soldi all’estero. Perché di motivi ce ne potrebbero essere, e come. Rispondere al timore di un effetto-Cipro anche in Italia, per esempio. Oppure perché il paese di destinazione è particolarmente affidabile e stabile. O ancora per avere servizi particolari, reportistica. O, semplicemente, una gestione finanziaria più efficiente.
Bandera. La concorrenza rimane: semplicemente cambia. Oggi è sbilanciata per un verso: domani si sposterà sulla qualità del servizio, anche se ci saranno ancora molti clienti che privilegeranno il prezzo.
Venturini. Quello che sta accadendo ora è un cambio di paradigma. Oggi lavoriamo in un contesto che si sta trasformando: i paesi non decidono più le loro politiche fiscali al loro interno, ma con accordi cross border o convenzioni internazionali. La trasformazione, dunque, va ben oltre il segreto bancario. Perché è l’intero insieme delle norme civili e fiscali a cambiare. E occorre rapidamente adattarsi. Per esempio: se una banca
non italiana intende offrire servizi compatibili con la normativa fiscale della Penisola, deve sviluppare sinergie e competenze con un partner locale. Solo così il cliente finale potrà trarne beneficio, solo così questa banca potrà diventare un fornitore di servizi appetibile per la clientela non residente.
D. E quindi?
R. E quindi ci sarà uno sviluppo di competenze trasversali. Che permetterà al cliente di comparare i servizi forniti da banche residenti con quelle non residenti e scegliere la più adatta alle sue esigenze. Per esempio: molte aziende di credito extra-Ue (come quelle svizzere) richiederanno di poter esercitare servizi in libera prestazione. Le banche estere, in generale, cercano un approccio globale, e per poter operare correttamente nel mercato comunitario pongono molte domande, fanno interpelli, esplorano nuove soluzioni, si muovono by the book come nel caso, appunto, della libera prestazione di servizi. Uno dei fattori chiave è, infatti, “togliere la polvere” da false credenze e miti e far conoscere altre realtà. L’importante è far capire al cliente che aprire un conto all’estero è lecito, basta seguire alcune norme. Ci troviamo in un mercato dove la libera scelta del cittadino è garantita: questa situazione trasforma il problema della fiscalità in un “di cui”.
Bolognesi. Questi argomenti sono nuovi per il mercato mass market, ma non per quello di standard elevato, che li ha già affrontati a suo tempo. Anzi: negli ultimi due anni si è puntato a ottenere regole del gioco il più possibile certe e trasparenti. Una volta, di regole ce n’erano poche: oggi si è capito che è meglio fissare standard di comportamento chiari, anche se più rigidi, piuttosto che rimanere in una zona grigia. Di nuovo, in questo ambito c’è, quindi, solo l’approccio. Perché ora amministrare i soldi all’estero richiede una piattaforma fiscale e informatica efficiente, come per esempio quella di una fiduciaria, che faccia “parlare” tra loro le diverse relazioni finanziarie del cliente. La sfida è, come ho già accennato, estendere queste piattaforme dalla fascia alta di clientela ad altri segmenti. Perché all’estero, i servizi e le condizioni sono decisamente concorrenziali. Anche nei prestiti. Un esempio su tutti: in Italia, le linee di credito sono schizzate a Euribor +5, mentre la media estera è a quota Euribor +1. Dopo un interpello all’Agenzia delle entrate, relativo al trattamento degli interessi passivi, e l’approfondimento del meccanismo fiscale italiano, gli istituti internazionali si sono rivelati in grado di offrire anche questi servizi, con una ricaduta virtuosa sul sistema economico domestico delle imprese. E così, il cliente può ora scegliere liberamente (e senza rischi) se lavorare con l’istituto sotto casa oppure con una banca estera.
D. Competizione a 360 gradi, dunque. Che, almeno in una prima fase, si svolgerà nell’arena del private banking. Chi vincerà?
Atzwanger. Chi offrirà migliori e maggiori servizi. Perché oggi, il cliente di una banca privata non si accontenta più di avere il salmone e il caviale: alla fine vuole servizi da cliente retail. Servizi veri e soluzioni efficienti.
Bandera. Sì: i classici servizi bancari diventano una commodity. E il cliente sarà disposto anche a pagarli. Ma a una condizione: la banca li dovrà fornire davvero.
Atzwanger. Bisognerà anche cambiare la mentalità del private banker. E questo non è ancora accaduto. Il primo investimento che oggi una banca private deve fare è la formazione. Il secondo, la composizione in banca di un nucleo di specialisti e partner professionali a disposizione dei private banker, che saranno i veri “registi” che accompagneranno il cliente in tutte le sue scelte per arrivare alle soluzioni richieste. Terzo punto, l’investimento in soluzioni It all’avanguardia. E, infine, in attività di marketing, per informare il cliente di tutto ciò che oggi una banca private può offrire in termini di cross border private banking.
D. Approfondiamo il tema delle problematiche fiscali: che cosa cambia?
Hager. La consulenza fiscale si sta internazionalizzando anche sul private banking, non solo sul corporate come accadeva una volta. I clienti, ormai, sanno che il conto all’estero “non ufficiale” non potrà più rimanere anonimo per molto tempo. E, in questo caso, la prima cosa che fanno è andare alla banca estera di riferimento e chiedere che cosa possono fare. È proprio con le banche estere che noi collaboriamo, per stringere accordi di consulenza, di cui possano usufruire gli istituti di credito e i loro clienti. Anzi: nella maggior parte dei casi sono le banche stesse a contattarci.
D. Ma sarà un lavoro davvero impegnativo, per le aziende di credito oltre confine, capire un modello fiscale complicato e intricato come quello italiano...
Galli. Fino al 1991, un italiano non poteva neppure investire in un titolo estero. La storia finanziaria del nostro paese, quindi, è molto recente. È logico che ci voglia un po’ per adeguare le logiche della nostra fiscalità a un mondo aperto e integrato. Con la nuova normativa Aifmd si metterà ordine anche sui fondi non armonizzati: ci sarà una fiscalità omogenea su tutti questi prodotti. Venuto, quindi, meno anche per questo aspetto l’incentivo fiscale a migrare all’estero, il cliente sarà incoraggiato ad avere un point of entry in Italia. Finora è stato farraginoso acquistare certi prodotti, per ragioni fiscali: nel prossimo futuro non sarà più così.
Peraltro, noi siamo uno dei quattro paesi pionieri nell’applicazione di Fatca, pensato per gli Usa ma che, probabilmente, diventerà la base per organizzare lo scambio di informazioni anche nell’Ue. Da parte loro, le autorità fiscali dovranno rendere più flessibili i loro modelli, e per questo motivo avranno bisogno di organizzare un’attività di formazione per i loro funzionari. Avverranno cambiamenti anche di tipo infrastrutturale: una volta, infatti, si trasferivano i conti a mano, fra poco lo si farà automaticamente, come richiesto dalla normativa sull’interoperabilità europea. Infine, il modello diventerà meno “bancocentrico”: da due anni c’è stata una crescita sensibile del risparmio gestito.
Atzwanger. A proposito di gestioni: oggi io divido questo servizio in due mondi, quello indipendente e quello non indipendente. Nel medio-lungo periodo, sarà il primo a prevalere: chi continuerà ad aprirsi poco alla pluriofferta avrà problemi a competere. Sempre più gestioni indipendenti, da parte loro, sceglieranno di operare tramite la piattaforma All-funds, che toglierà un po’ di efficienza economica all’attività bancaria, ma darà più possibilità di scelta tra il “meglio del meglio” che esiste in tutto il mondo. E ne gioverà decisamente la qualità del servizio.
Venturini. Saranno soprattutto le banche non radicate sul territorio a scegliere la multiofferta - e lo faranno per necessità. Ma di per sé, la piattaforma aperta non è sufficiente: da sola non dà garanzia di prestazione.
D. Ma torniamo agli aspetti fiscali. Che cosa è cambiato nei rapporti fra l’Italia e i paesi esterni all’Unione Europea sulla questione dei depositi oltre confine?
Venturini. Dal 2001 a oggi, l’Italia ha avviato un cambiamento molto importante. Ed è riuscita a trasformare una problematica in opportunità: ha creato modelli importanti diventati veri e propri schemi di riferimento. E il Ticino ha fatto di necessità virtù, sviluppando accordi cross border con professionisti italiani, che hanno portato le loro competenze nel private banking svizzero. Questo scambio ha permesso ad alcuni operatori di evolvere il modello di business con soluzioni che già oggi rispecchiano i più elevati standard di compliance. Ma molte di queste intese sono rimaste sotto silenzio. Ora siamo nell’era degli accordi Rubik e dell’emersione volontaria. Iniziative, queste ultime, adottate da diversi stati in tempi molto recenti e con efficacia molto diversa a seconda del paese che vogliamo considerare. Il problema, però, è che la normativa tributaria italiana ha un grado di sofisticazione quasi isterico: è complicata e farraginosa. L’insieme di questi elementi non fa altro che aggiungere nuove componenti di criticità in un settore in cui la giurisprudenza è già affollata. La Confederazione è molto interessata a tutto ciò che sta succedendo, ma non perde il tradizionale aplomb distaccato e neutrale, neppure quando personaggi di altri paesi scrivono nefandezze sulla Svizzera e sul suo sistema giuridico ed economico
D. Intanto, le fiduciarie perdono di importanza, non è così?
Bandera. Beh, da molto tempo la fiduciaria non è più utilizzata per mantenere la segretezza sui trasferimenti di denaro. Il suo ruolo è, quindi, cambiato. Tra i nuovi servizi che offre, c’è la formazione del cliente. Sì, perché anche il cliente ha bisogno di formazione. Oggi, con l’informatica, è tutto più veloce, non c’è più nulla di scontato, come accadeva una volta: d’altra parte, le piattaforme aperte sono accessibili direttamente via internet. E le normative sono più impattanti. Per esempio, bisogna ricordare al cliente che, sopra una certa somma, non si può più pagare in contanti. Oppure che, per le grandi spese, ci vuole una pezza giustificativa. Bisognerà anche spiegargli che l’emersione del capitale ha un costo: la voluntary disclosure non è una nuova versione dello scudo fiscale, come alcuni credono, ma valuta la posizione del singolo cliente, e comunque non è “gratuita”. Chi dovesse affrontare questo istituto come se fosse un nuovo scudo potrebbe andare incontro a problemi molto importanti. La consulenza fornita caso per caso, e in maniera molto approfondita, invece, potrà aiutare questi clienti a far emergere i propri capitali con la formula migliore.
Bolognesi. La “voluntary disclosure” è un fenomeno che si sta massificando, per lo meno per come viene spesso erroneamente raccontato. Ed è questo il problema: non solo non è uno scudo, ma è una pratica molto più elaborata e complessa; per questo richiede estrema cautela nell’uso da parte del cliente. Oltre a ciò è (tuttora) terreno in evoluzione da un punto di vista normativo. E l’amministrazione finanziaria è ancora troppo poco preparata a livello organizzativo e di personale per reggere un’onda massiva di richieste volontarie di accertamento. Da parte loro, i contribuenti “non scudati” si trovano in una situazione molto difficile. È come se fossero nelle segrete di Indiana Jones: il muro da una parte, la pressa dall’altra. Va da sé che ci vuole una soluzione sicuramente tecnica ma anche (e soprattutto) politica se si vuole finalmente lasciarsi dietro definitivamente un’epoca più di ombre che di luci.
Venturini. Occorre anche ricordare che la “voluntary disclosure” non è frutto di un accordo, ma una norma interna italiana. È una presa di posizione nazionale su un problema per il quale Roma è stata sanzionata. Se l’Italia vuole trasformarla in un accordo, deve giocoforza coinvolgere altri paesi.
Hager. Abbiamo carenze normative, organizzative e informative. C’è molto da fare e bisogna imparare dagli altri paesi. Ma io sono perplesso, perché non sono certo che nell’amministrazione fiscale abbiamo la cultura per questi accordi. Basti vedere le difficoltà che sorgono sull’intesa cross border tra Italia e Svizzera. Ne parlano da anni, ma non succede nulla. Eppure, ultimando una convenzione, si creerebbe una situazione più semplice e vantaggiosa di quella attuale. E conveniente per tutti.
D. Mentre ora si naviga nelle complicazioni. E il futuro non è certamente semplice da interpretare.
Atzwanger. Sembra assurdo, ma l’artigiano italiano che, magari, ha nascosto 100 mila euro all’estero, oggi è costretto ad agire perché costretto da Fatca. Perché è Fatca il motore dell’evoluzione internazionale della lotta all’evasione, certamente non i singoli governi che si limitano a reagire. Se Vienna abolisce il segreto bancario con effetto retroattivo al 1° gennaio 2014, come si sta ipotizzando da fonti governative austriache, questo artigiano avrà l’Agenzia delle entrate alle porte. Magari non subito, ma certamente entro il periodo di prescrizione. Non dimentichiamoci poi che il fallimento fiscale è, oggi, una realtà, e potrebbe colpire molte piccole e medie imprese. Il governo dovrebbe, quindi, dare norme chiare sul rientro dei capitali. La Germania lo ha fatto, e dall’Austria sono rientrati, disciplinatamente, i soldi di quasi tutti i cittadini tedeschi.
D. Mentre in Italia, l’emersione potrebbe essere molto problematica...
Galli. L’Agenzia delle entrate ha una grande difficoltà in tema di discrezionalità responsabile. Il che non è compatibile con la situazione di crisi attuale. L’applicazione delle norme dovrebbe essere calata nella realtà economica.
D. Perché rigidità e complicazione insieme sono un cocktail micidiale...
Galli. Non solo: l’amministrazione fatica a dare attuazione anche a decisioni di tipo politico, che vorrebbero dare flessibilità e semplificazione. È accaduto, per esempio, per le decisioni prese per rilanciare l’immobiliare. Nelle proposte elaborate durante il governo Monti di cancellare tutte le miriadi di sconti, favori e via dicendo, una visione d’insieme c’era. Ma l’approccio sistematico, in Italia, non paga.
D. Che spazio si crea per gli advisor in questo scenario? La consulenza guadagnerà importanza?
Bandera. Sì. Ma bisognerà superare lo scoglio culturale per cui la consulenza fornita dalla banca è percepita come “dovuta”. Perché l’advice gratuito non sempre è approfondito: spesso si limita alle informazioni base. Ecco, occorre che ogni banca scelga bene la propria vocazione: consulenza come commodity o come valore aggiunto. La prima si basa sui volumi, la seconda su una maggiore raffinatezza delle informazioni.
Bolognesi. È un bene, a mio parere, che si stabiliscano costi precisi per ogni servizio effettuato dalla banca. Perché finora, non è che i servizi forniti, come la consulenza, fossero tutti esenti da spese: erano semplicemente “nascosti” o, comunque, non specificatamente individuati e il cliente pensava che fossero gratuiti. Credeva di non pagarli, e invece lo faceva. All’estero, queste “spese segrete” generalmente non ci sono: ognuno sa quanto, che cosa e perché paga. Quindi, per poter competere, le società italiane dovranno cambiare registro e acquisire quella trasparenza sostanziale che spesso non hanno avuto; è chiaro che a questo passaggio deve essere accompagnata un’azione di “educazione” e formazione molto importante del cliente-utilizzatore.
D. Dopo la liberalizzazione, quindi, il servizio diventa migliore?
Bolognesi. Dipenderà dall’approccio della società. Il rischio è quello di dire: “abbiamo tanti servizi, quindi siamo bravi”. Ma non è sempre così. A volte, si offrono troppi servizi e si finisce per fare confusione; proprio perché si è deciso di espandere la gamma offerta in poco tempo, senza controllo e formazione appropriata. È l’effetto-pendolo: o troppo da una parte, o troppo dall’altra. Oppure: prima si fornivano poche informazioni, ora se ne comunicano troppe. E troppe notizie, si sa, sono spesso equivalenti a nessuna. Anche la produzione normativa (almeno in Italia) non sfugge a questo principio. Da noi si regolamenta partendo da ciò che è già avvenuto. Vogliamo imparare a farlo prima che avvenga? Si eviterebbero le proliferazioni e le falle che, invece, si osservano ora. Per arrivare a questo, ci vuole un doppio sforzo. Del regolatore, che deve avere un senso di visione a medio e lungo termine e del mercato, che non deve avere paura delle regole.
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