Truss come Thatcher: meno tasse ai ricchi per salvare la Brexit

La premier presenta un piano che evoca le ricette economiche della lady di ferro

Truss come Thatcher: meno tasse ai ricchi per salvare la Brexit

«There is no alternative». Con quella voglia matta di assomigliare non solo nell'outfit a Margaret Thatcher, Liz Truss rispolvera il motto più celebre di Iron Lady. Già, per liberare la Gran Bretagna dall'assedio della recessione, per stemperare la febbre del disagio sociale che sta portando sempre più i sudditi a incrociare le braccia e a bruciare le bollette, non ci sono scappatoie: occorre una cura da cavallo, come da ormai antica prescrizione degli anni Settanta. Lo stato di dolente sospensione di un intero Paese, durato fino alle esequie della regina Elisabetta, è finito.

Seppur quello della neo-premier sia un thatcherismo ancora monco, poiché privo del controllo rigoroso della spesa pubblica, abbondano invece i tagli fiscali nel piano anti-crisi presentato ieri da Downing Street. Nelle casse del Regno verranno a mancare entrate per 50 miliardi di sterline, un sacrificio considerato necessario per dare respiro a famiglie e aziende. I laburisti hanno però già storto il naso: per loro è una roba degna di un Robin Hood della City. Non piace l'alleggerimento dell'imposta, dal 45% al 40%, sui redditi superiori alle 150mila sterline, mentre l'aliquota base è stata appena limata dal 20 al 19%; né piace l'aver rottamato il tetto ai bonus dei banchieri, finora limitato al doppio dello stipendio, con lo scopo di calamitare nel cuore finanziario di Londra nuovi «bankers» e rendere la piazza non meno attrattiva di New York e di Hong Kong. Aggiungono, dall'ala sinistra: le sforbiciate promesse si basano su prestiti insostenibili in un momento in cui la tenuta del debito pubblico è già stata messa a repentaglio dal pacchetto biennale di sostegno energetico, del valore di 100 miliardi, e dall'ascesa dei tassi d'interesse.

In realtà, il ventaglio degli interventi del governo non strizza l'occhio solo alle classi più abbienti. Nella decisione di cancellare la prevista imposta sulle società del 25% e di mantenere quella del 19% (è la più bassa dei Paesi del G20), c'è per esempio la volontà di non intaccare risorse che le imprese potranno destinare a nuovi investimenti e assunzioni. Più diretti alla popolazione sono invece gli sgravi fiscali sull'acquisto della prima casa ora che il costo dei mutui, dopo le sette strette consecutive da parte della Bank of England, si è fatto decisamente oneroso e l'alleggerimento dei contributi alla previdenza sociale. In tempi di forte perdita del potere d'acquisto causa carovita, l'esecutivo ha rinunciato al previsto aumento delle aliquote sugli alcolici. C'è infine una parte più «internazionale», ed è quella che prevede la creazione di un network di «zone d'investimento» dove alle imprese straniere saranno garantiti tagli alle tasse, regole di pianificazione liberalizzate e una riduzione degli ostacoli normativi.

Più che il «Labour», sono stati i mercati a essere spaventati per l'entità di quello che gli analisti hanno definito un «regalo fiscale». La sterlina è precipitata a un nuovo minimo da 37 anni contro il dollaro, gli investitori hanno abbandonato i titoli di Stato del Regno Unito e il Ftse (-2%) è sceso al livello più basso da marzo. Movimenti sismici di cui, per ora, il governo non si cura.

Serve «un nuovo approccio per una nuova era incentrata sulla crescita» con l'obiettivo di un tasso d'espansione del 2,5% a medio termine, ha affermato il ministro delle Finanze, Kwasi Kwarteng. E se Londra non ci riuscirà? Be', allora, «God Save the Pil».

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