"Eroe? Papà fece solo il suo dovere"

Umberto Ambrosoli aveva solo otto anni ma sentì alcune minacce telefoniche destinate al padre. E da allora cambiò e dice: "E' l'esempio di chi agisce senza calcoli né tornaconto. Non commento certe parole, le polemiche non servono"

Umberto Ambrosoli, che tutti chiamano Betò, non aveva ancora compiuto otto anni quando suo papà non è più tornato a casa. Papà è rima­sto sul marciapiede di via Morozzo della Rocca, a Milano. Ucciso. Se l’aspettava l’avvocato Giorgio Am­brosoli, che in una sorta di testamen­to spirituale, scriveva alla moglie An­nalori ben quattro anni prima che il sicario mandato da Sindona gli stron­c­asse la vita con quattro colpi di pisto­la: «Pagherò a caro prezzo l’incarico. Lo sapevo prima di accettarlo e quin­di n­on me ne lamento perché mi è sta­ta data un’occasione per fare qualco­sa per il Paese». E se lo aspettava pure il piccolo Betò che, una sera, origliò per sbaglio una telefonata di minac­ce arrivata proprio al suo papà. Anda­va alle elementari alla Ruffini, Betò. E la maestra arrivò perfino a convocare mamma Annalori: «Suo figlio è cam­biato, è preoccupato. È successo qualcosa a casa?». Sì. Un assassinio annunciato. Ora Betò non porta più i pantaloni corti e le Start rite , quelle «scarpe con gli occhiali», i buchi so­pra. È diventato uomo, avvocato pe­nalista in forza allo studio Isolabella di Milano. Non è vero che è cresciuto senza papà, Umberto. Perché Betò trasuda princìpi di papà. Crescendo s’è messo a studiare le carte proces­sua­li e a spulciare i diari del liquidato­re della banca di Sindona. Ne ha scrit­to pure un libro, Qualunque cosa ac­cada , che lo porta in giro per l’Italia a raccontare «la bella storia». Eppure, contattato dal Giornale , Betò non se la sente di rispondere a quella frase di Andreotti che,ai suoi occhi,potreb­be essere anche valutata come un’al­tra pistolettata contro un uomo già morto. «Lascio che la gente si faccia un’opi­nione. Credo che non ci sia bisogno di una mia interpretazione, men che meno di una mia polemica diretta nei confronti del senatore a vita». Tut­tavia Umberto qualcosa la dice: «Cre­do che questa sia l’occasione per una riflessione nuova e rinnovata su co­me possa essere inteso il concetto di responsabilità.Soprattutto quelle at­tribuite nell’interesse della collettivi­tà ». Non se la sente di attaccare diretta­mente Andreotti, anche se gli preme ricordare l’«esempio» che è stato suo papà. «Esempio, non eroe. Non ave­va mica poteri sovrannaturali: era sol­tanto un uomo che ha fatto il suo do­vere. Fino in fondo, fino alle estreme conseguenze: tutto qua». Strano Pae­se il nostro, per usare un eufemismo, in cui quello che dovrebbe essere la normalità assume caratteri di eroi­smo. E altrettanto strano Paese, stes­so eufemismo, quello in cui le istitu­zioni che lo rappresentano, ai funera­li di Giorgio Ambrosoli, non si sono fatte neppure vedere. Umberto non se la sente di commentare, replicare, recriminare. Tornando sulla gaffe di Andreotti dice soltanto: «Spero si ca­pis­ca che chi ha un ruolo di responsa­bilità operi solo nell’interesse colletti­vo. E non fare delle valutazioni in ter­mini di opportunità, di convenienza personale, di calcolo, di proprio tor­naconto ». Il giovane Ambrosoli accusa il retro­p­ensiero di Andreotti senza mai citar­lo: «Il concetto di responsabilità che non mi piace è quello fatto di compro­messi, di accettazione delle pressio­ni: quello che ha costruito il Paese del quale oggi in parte ci lamentiamo. Mio padre ha voluto invece costruire un Paese diverso, l’ha voluto fare con il suo esempio, al di là delle frasi con le quali qualcuno, a distanza di anni, cerca di giustificare la propria posi­zione ». A Betò è sufficiente che «si ve­da chiaro chi ha fatto e fa bene e chi no.

Penso all’ex governatore di Banki­­talia Paolo Baffi, al vicedirettore gene­rale Mario Sarcinelli, al principale collaboratore di papà Silvio Novem­bre, a Carlo Azeglio Ciampi. Tutte persone che, nel momento in cui han­­no avuto responsabilità, l’hanno inte­sa nel modo giusto». Come suo papà.

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