Quattro giorni per cambiare. Quattro giorni per non naufragare. Il programma del Terzo Plenum del Partito Comunista cinese apertosi ieri è tutto qui. Ma per cambiare bisogna rompere con il passato. Per farlo Deng Xiaoping e il Terzo Plenum di 35 anni fa non esitarono a buttare alle ortiche la Rivoluzione Culturale di Mao ed imboccare la strada delle riforme. Il presidente Xi Jinping e i 376 membri del Comitato Centrale del Partito Comunista non sembrano, per ora, disposti a fare altrettanto.
Nonostante l'indecisione dei suoi nuovi leader la Cina è però ad un bivio altrettanto cruciale. L'economia dopo un ventennio di crescita a due cifre arranca intorno ad un «misero» 7,5 per cento annuo. In quel numerino sono rinchiusi gli incubi di Pechino. Quel tasso, inavvicinabile per qualsiasi Paese occidentale, non basta oggi a garantire una distribuzione della ricchezza abbastanza rapida e proporzionale da soddisfare una popolazione da 1300 milioni di abitanti. I «nuovi ricchi» cinesi con redditi da oltre un milione e 200mila euro all'anno superano ormai il milione. Ma la fortunata elite deve fare i conti con la rabbia, l'invidia e il malessere sociale di circa 128 milioni di connazionali, il 13,8 della popolazione, costretti a sopravvivere con meno di 25 euro al mese. E se a questa immensa forbice si aggiunge il fatto che la maggior parte di nuovi ricchi è in qualche modo legata al Partito si capirà a quali livelli di pericolosità stia arrivando il malcontento sociale.
Ma la forbice del reddito non è tutto. Vivere sotto la soglia dei 24 euro al mese significa non poter affittare una casa, non poter metter su una famiglia, non poter abbandonare le campagne dove l'inquinamento uccide. Significa, in altre parole, esser dei morti viventi. Quando gli zombie senza speranze e senza futuro superano i cento milioni il rischio di una rivolta della disperazione diventa però quanto mai presente. I segnali non mancano. Il misterioso attentato del 29 ottobre in piazza Tienanmen attribuito agli indipendentisti musulmani della minoranza uigura, le bombe esplose il 6 novembre intorno alla sede del Partito di Taiyuan, nel nord del Paese, minacciano di nascondere un iceberg molto più vasto.
Ogni anno il presidente Xi e i suoi fanno i conti con 150-200mila rivolte locali generate dal malessere di villaggi dimenticati, categorie sociali discriminate, lavoratori sfruttati. Fino ad oggi tutte queste sollevazioni sono rimaste isolate consentendo alla macchina repressiva del regime di schiacciarle. I più avveduti fra partecipanti al Terzo Plenum si chiedono, però cosa succederebbe se il malessere si saldasse in un'unica incontrollabile insurrezione. Per prevenire quel rischio chiedono di cancellare regole odiose come l'hukou, la legge sulla residenza che impedisce agli abitanti delle campagne si abbandonare la propria residenza pena la perdita di qualsiasi assistenza sociale, primo fra tutti il diritto alla sanità.
Ma il Terzo Plenum dovrebbe anche trasformare in proposte concrete la lotta alla corruzione promessa dal presidente Xi e liberare l'economia e la finanza dal rigido controllo del partito, liberalizzando i tassi d'interesse. Obbiettivi non facili dal momento che lo stesso presidente Xi, legato a doppio filo ai vertici militari del Paese, non sembra disponibile a lasciare industria e finanza nelle mani di imprenditori fuori controllo. E così l'eventualità di un drastico taglio con il passato simile a quello impresso 35 anni fa da Deng Xiaoping appare quanto mai improbabile.
«Il partito spiegava giorni fa il Quotidiano del Popolo, ovvero l'organo ufficiale del comunismo cinese - deve mantenere il suo ruolo guida affrontando chi all'interno della nostra società invoca un'imitazione del modello Occidentale». Come dire: meglio morti che liberali.
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