Prima missione: salvare l’economia americana

Se non si troverà l’accordo sul deficit, le tasse saliranno per il 90% delle famiglie

Altri quattro anni di pazienza. È questo il sacrificio richiesto agli amanti della libertà dalla rielezio­ne di Barack Obama. Un sacrificio grande, attesi i tempi bui che le li­bertà stanno vivendo in giro per il mondo. Alla prima elezione, un po’ tutti avevamo salutato l'avven­to al potere di un americano di co­lore, pieno di tante speranze e di ottimismo. Quattro anni dopo? Un bilancio deludente. In politica estera, da cittadino ammetto che non ho capito quale sia stato il filo comune della politica obamiana. In politica interna, poi, la situazio­ne è ancora peggiore. Vediamo ra­pidamente il perché.
Obama è il fautore di una regola­mentazione rigida dei mercati e degli strumenti finanziari. È una posizione molto di moda (nei sa­lotti radical chic). Peccato che la ri­gida regolamentazione dei mer­cati (penso ad esempio alla legge Dodd-Frank) si accompagni ad una serie di conseguenze spiace­voli, tutte regolarmente verificate­si nel sistema finanziario: 1) gli operatori vanno ad insediarsi al­trove, dove trovano condizioni più favorevoli; 2) le maggiori re­sponsabilità imposte agli operato­ri che restano implicano un costo maggiore degli strumenti finan­ziari a carico degli investitori; 3) lo sviluppo del mercato finanziario e dell'innovazione finanziaria tro­vano seri ostacoli.
Obama è il presidente del pri­mo downgrade della storia statu­nitense attribuito dell'agenzia di rating americana Standard & Po­or's
(vi ricordate? Correva l'ago­sto 2011).
Obama è interventista (meglio: keynesiano) in economia, la qual cosa oggi è ahinoi tornata prepo­tentemente di moda ( questa posi­zione nei salotti radical chic per la verità non è mai tramontata). Co­me tutti i keynesiani crede che l'economia debba essere incenti­vata a suon di spesa pubblica. Pec­cato che il deficit degli Stati Uniti e
il debito pubblico fuori controllo non consentano grandi sforzi. E che il così detto «fiscal cliff» sia or­mai dietro l'angolo. Cosa sia il «precipizio fiscale» in cui l'econo­mia statunitense potrebbe cade­re è cosa nota ai più. Si tratta, in breve, di un aumento delle tasse e dei tagli alla spesa che si abbatte­rà sul 90% delle famiglie america­ne, qualora non si trovasse un ac­cordo sul tetto al debito pubblico. Alcuni centri di ricerca statuni­tensi stimano che le conseguenze delle politiche generate dal fiscal cliff siano in grado di ridurre il Pil statunitense di circa quattro pun­ti percentuali per il solo 2013, ge­nerando pertanto una seria reces­sione. L'aumento previsto della disoccupazione è pari a un punto percentuale, equivalente a una perdita di posti di lavoro di circa due milioni. Più in dettaglio, se­condo un'analisi di JP Morgan: 280 miliardi di dollari sarebbe il costo della eliminazione delle agevolazioni fiscali introdotte da Bush jr.; 125 miliardi il costo della riduzione delle imposte sulle re­munerazioni introdotte da Oba­ma; 40 miliardi di costi derivereb­bero dai sussidi di disoccupazio­ne; 98 miliardi sarebbero invece legati al taglio delle spese. In tota­le, tra aumenti delle tasse e ridu­zione delle spese si arriverebbe a una riduzione del Pil di circa 3,5%. Il rapporto di JP Morgan si conclude giustamente con il ri­chiamo al fatto che la già fragile ri­presa e l'elevata disoccupazione rischierebbero di produrre un col­po durissimo all'economia statu­nitense e mondiale, qualora le conseguenze del fiscal cliff doves­sero verificarsi.
Come molti osservatori sosten­gono, anche il sottoscritto som­messamente prevede che subito dopo le elezioni il Congresso de­gli Stati Uniti voterà per posticipa­re il
fiscal cliff di almeno un seme­stre, in modo da lasciare il tempo per trovare una soluzione legisla­tiva condivisa. Il problema è che la tattica del «prendere tempo» non è immune da conseguenze. Il costo dell'indecisione può infatti produrre effetti negativi fin da su­bito, prima che il 2013 cominci. Le stime più accreditate parlano infatti di una riduzione del Pil di mezzo punto percentuale nella se­conda metà del 2012, proprio a causa della revisione delle politi­che di spesa delle famiglie e delle imprese, in previsione dei cam­biamenti prodotti dal fiscal cliff .


Certo che cominciare una presi­denza «traccheggiando» sulle ini­ziative da prendere per ridurre il peso della cosa pubblica, come molto probabilmente accadrà, non è un bel modo per ri-presen­tarsi al mondo. Ma, tanto, come si suol dire, «passato il Santo, gabba­ta la festa».

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