Altri quattro anni di pazienza. È questo il sacrificio richiesto agli amanti della libertà dalla rielezione di Barack Obama. Un sacrificio grande, attesi i tempi bui che le libertà stanno vivendo in giro per il mondo. Alla prima elezione, un po’ tutti avevamo salutato l'avvento al potere di un americano di colore, pieno di tante speranze e di ottimismo. Quattro anni dopo? Un bilancio deludente. In politica estera, da cittadino ammetto che non ho capito quale sia stato il filo comune della politica obamiana. In politica interna, poi, la situazione è ancora peggiore. Vediamo rapidamente il perché.
Obama è il fautore di una regolamentazione rigida dei mercati e degli strumenti finanziari. È una posizione molto di moda (nei salotti radical chic). Peccato che la rigida regolamentazione dei mercati (penso ad esempio alla legge Dodd-Frank) si accompagni ad una serie di conseguenze spiacevoli, tutte regolarmente verificatesi nel sistema finanziario: 1) gli operatori vanno ad insediarsi altrove, dove trovano condizioni più favorevoli; 2) le maggiori responsabilità imposte agli operatori che restano implicano un costo maggiore degli strumenti finanziari a carico degli investitori; 3) lo sviluppo del mercato finanziario e dell'innovazione finanziaria trovano seri ostacoli.
Obama è il presidente del primo downgrade della storia statunitense attribuito dell'agenzia di rating americana Standard & Poor's (vi ricordate? Correva l'agosto 2011).
Obama è interventista (meglio: keynesiano) in economia, la qual cosa oggi è ahinoi tornata prepotentemente di moda ( questa posizione nei salotti radical chic per la verità non è mai tramontata). Come tutti i keynesiani crede che l'economia debba essere incentivata a suon di spesa pubblica. Peccato che il deficit degli Stati Uniti e il debito pubblico fuori controllo non consentano grandi sforzi. E che il così detto «fiscal cliff» sia ormai dietro l'angolo. Cosa sia il «precipizio fiscale» in cui l'economia statunitense potrebbe cadere è cosa nota ai più. Si tratta, in breve, di un aumento delle tasse e dei tagli alla spesa che si abbatterà sul 90% delle famiglie americane, qualora non si trovasse un accordo sul tetto al debito pubblico. Alcuni centri di ricerca statunitensi stimano che le conseguenze delle politiche generate dal fiscal cliff siano in grado di ridurre il Pil statunitense di circa quattro punti percentuali per il solo 2013, generando pertanto una seria recessione. L'aumento previsto della disoccupazione è pari a un punto percentuale, equivalente a una perdita di posti di lavoro di circa due milioni. Più in dettaglio, secondo un'analisi di JP Morgan: 280 miliardi di dollari sarebbe il costo della eliminazione delle agevolazioni fiscali introdotte da Bush jr.; 125 miliardi il costo della riduzione delle imposte sulle remunerazioni introdotte da Obama; 40 miliardi di costi deriverebbero dai sussidi di disoccupazione; 98 miliardi sarebbero invece legati al taglio delle spese. In totale, tra aumenti delle tasse e riduzione delle spese si arriverebbe a una riduzione del Pil di circa 3,5%. Il rapporto di JP Morgan si conclude giustamente con il richiamo al fatto che la già fragile ripresa e l'elevata disoccupazione rischierebbero di produrre un colpo durissimo all'economia statunitense e mondiale, qualora le conseguenze del fiscal cliff dovessero verificarsi.
Come molti osservatori sostengono, anche il sottoscritto sommessamente prevede che subito dopo le elezioni il Congresso degli Stati Uniti voterà per posticipare il fiscal cliff di almeno un semestre, in modo da lasciare il tempo per trovare una soluzione legislativa condivisa. Il problema è che la tattica del «prendere tempo» non è immune da conseguenze. Il costo dell'indecisione può infatti produrre effetti negativi fin da subito, prima che il 2013 cominci. Le stime più accreditate parlano infatti di una riduzione del Pil di mezzo punto percentuale nella seconda metà del 2012, proprio a causa della revisione delle politiche di spesa delle famiglie e delle imprese, in previsione dei cambiamenti prodotti dal fiscal cliff .
Certo che cominciare una presidenza «traccheggiando» sulle iniziative da prendere per ridurre il peso della cosa pubblica, come molto probabilmente accadrà, non è un bel modo per ri-presentarsi al mondo. Ma, tanto, come si suol dire, «passato il Santo, gabbata la festa».
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