Tutti sembrano avere imparato la lezione: cambia musica fra gli Stati Uniti e Israele. Un paio di anni di Fratellanza Musulmana all'assalto del potere, decine di migliaia di morti in Siria, l'Iran vicino alla bomba sembrano aver vaccinato tutti: è il tempo della coesione, non di inutili scaramucce. Obama e Netanyahu si avvicinano. I preparativi sono stati ossessivi: ma ora sotto il sole dell'aeroporto Ben Gurion, ecco Obama che si affaccia dall'Air Force One, e sembra molto contento. La musica della banda dell'esercito si fa sotto, i nuovi ministri israeliani si allineano per una pacca sulla spalla del principe azzurro. Quando sta per aprirsi il portello, Shimon Peres e Bibi Netanyahu sono concentrati. Quante cose sono in causa. L'Iran non si piega, in Siria forse sono state usate armi chimiche, i palestinesi sono innervositi e combattivi mentre aspettano Obama a Ramallah.
Il rapporto, fino a oggi sfilacciato, con gli Usa, è ormai per Israele la salute stessa, forse anche la vita, una visita di Obama qui è diversa da ogni altra visita nel mondo, e anche per gli Usa è così: Israele come ha detto Joe Biden «è la migliore nave da guerra che abbiano gli Usa, è il suo pezzo di terra ferma in mezzo alla palude della Fratellanza Musulmana su cui si erge anche il picco atomico del pericolo iraniano. Ed ecco all'aeroporto il cambio strategico, sotto i nostri occhi. Obama cammina con Bibi e Peres ed è tutto un segnale di amicizia, un linguaggio corporeo in cui il gesto cool e intimo di Obama quando si toglie la giacca è subito seguito da Netanyahu. Insieme salgono sul palco. Il Primo Ministro israeliano con tono davvero commosso dopo le parole di benvenuto di Peres, dice «Ho solo da dire grazie». E ripete grazie per l'incessante sostegno, per l'aiuto all'Onu, per l'impegno militare, per le sanzioni contro l'Iran.
È dimenticata l'illusione di Obama che i palestinesi possano essere ipnotizzati da gesti di rinuncia territoriale, da stop alle costruzioni, non c'è traccia di astio perché Obama non è venuto prima come presidente. Poi Obama a sua volta fa una vera e propria scelta di riparazione. Non fa più l'errore di riferire la nascita di Israele alla reazione mondiale alla Shoah, parla ora del diritto di nascita maturato in migliaia di anni, del ritorno del popolo ebraico alla sua terra. Lo dice ribadendo che non è per caso che qui ha luogo il suo primo viaggio da neoeletto. Quello dell'altra volta nel 2009, fu al Cairo, all'Università di Al Azhar: le sue parole marchiarono la fine di Mubarak, rivolse il suo discorso alla «nazione musulmana» immaginando di conquistare il grande popolo della Fratellanza Musulmana, che poi ha preso il potere in tutte le rivoluzioni arabe. Nel maggio del 2009 Obama inaugurò anche un atteggiamento conflittuale chiedendo il famoso freeze totale degli insediamenti. Intanto l'atmosfera mediorientale si è scaldata anche a causa dell'Iran, l'altro grande centro della visita. Obama mentre camminava con Bibi che gli indicava il sentiero di marcia segnato con una linea rossa ha scherzato: «Tu mi indichi sempre delle linee rosse».
Il presidente teme che per Bibi quella invalicabile sia a novembre, quando la bomba potrebbe essere assemblata. L'intensità di tre ore di colloquio a quattr'occhi ha portato a una conferenza stampa che mantiene molti segreti, anche se Obama ha ribadito che gli Usa non permetteranno che gli ayatollah arrivino all'atomica. La scelta diplomatica resta la preferita «e c'è ancora tempo», ma «sono aperte tutte le opzioni», anche quindi quella militare. Sui palestinesi, il tema insediamenti è sparito, Obama ha parlato solo di «due Stati per due popoli», riprendendo peraltro quanto già ripetuto da Bibi.
Sulle notizie ancora non del tutto accertate dell'uso di armi chimiche in Siria Obama sembra meditare un intervento più deciso. Ma se tutto questo abbia convinto Netanyahu a rinunciare a agire da solo contro l'Iran se a Israele sembrerà che «la linea rossa» sia stata raggiunta, se ne discuterà anche domani, al ritorno da Ramallah.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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