Gli orti d’oro di Slow Food

La cooperazione internazionale: ai campi solo il 30% delle somme. Il resto è apparato

Gli orti d’oro di Slow Food

La cooperazione internazionale è un grande business. Non a caso si stanno preparando contratti di lavoro ad hoc per gli operatori di questo settore. Che, al di là delle vicende giudiziarie dell’ex ministro Clini (governo tecnico di Mario Monti), suscitano non poche perplessità. Perché i fondi destinati al recupero ambientale in Irak sono gli stessi fondi che il medesimo governo non trovava per la tutela ambientale in Italia. Nel business politicamente corretto non poteva ovviamente mancare un emblema della "nuova Italia" a cavallo tra Renzi e Tsipras: Slow Food. Che chiede fondi per creare 10mila orti in Africa. L’obiettivo è nobile, sacrosanto, indubbiamente utile. Ma con qualche dubbio. Ogni orto – spiegano a Slow Food – richiede un investimento di 900 euro. Non poco. Poi si scopre che l’orto in sé costa 250 euro, il resto è "fuffa".

Con 200 euro destinati al "coordinamento del progetto" ed altri 200 per il rafforzamento della rete africana del movimento di Carlin Petrini. Si aggiungono poi le spese per "diritto al viaggio ed allo studio", altri 200 euro. In pratica all’orto finisce meno del 30% della somma. Ogni anno, s’intende. E qui sorge un altro problema: se l’operazione deve servire per "valorizzare i saperi e le gastronomie tradizionali, per promuovere l’agricoltura familiare e di piccola scala", non si capisce perché questi costi assurdi debbano essere su base annua. Magari, però, è solo un errore di comunicazione. Non lo è, invece, il costo in sé di un orto in Africa. Roberto Veglia, presidente della onlus Artaban, spiega che a Nanoro (Burkina Faso), con i Fratelli della Sacra Famiglia e gli aiuti ricevuti dai privati italiani, si sono costruiti orti con una spesa di 35 euro per ciascuno. "E in Nicaragua – prosegue Veglia – con 25 mila euro (pari al valore di una trentina di orti Slow Food) abbiamo acquistato un terreno ed un gruppo elettrogeno, costruito due dormitori per i ragazzi, realizzato un rancho con cucina, refettorio, sala studio, sala per ospitare le riunioni del villaggio con dotazione tv, un pozzo. E, naturalmente, un orto». Forse, però, gli orti del Burkina e del Nicaragua non produrranno prodotti buoni e giusti da destinare ad Eataly o alle catene di negozi progressisti e politicamente corretti. Forse si limiteranno a sfamare le popolazioni locali, senza visibilità mediatica. E senza garantire la sopravvivenza della costosa macchina da guerra di Slow Food. 

Alessandro Grandi, Think tank “Il Nodo di Gordio”

www.NododiGordio.org

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