In piazza fronte variegato stanco di arroganza

Quando, il 27 maggio, la prima ruspa apparve in piazza Taksim per avviare la cementificazione del parco Gezi, a opporsi furono in tutto tre cittadini. Otto giorni dopo, sono diventati centinaia di migliaia, non solo a Istanbul, ma in tutte le principali città turche, e il governo non sa più che cosa fare per fermare la protesta. Mentre il premier Erdogan, dopo avere definito sprezzantemente i dimostranti teppisti al servizio delle opposizioni, se ne è partito per un viaggio in Nordafrica, il presidente della Repubblica Gül e il vice primo ministro Arinc, pur essendo esponenti dello stesso partito islamista moderato AKP, si sono scusati per gli eccessi della reazione poliziesca e cercano di stabilire un dialogo con la piazza. L'operazione, tuttavia, si presenta difficile, perché la difesa del parco è stata in realtà solo il detonatore di una protesta contro l'autoritarismo, la deriva islamica, gli scempi edilizi, le continue interferenze nella vita privata del governo che covava da tempo sotto la cenere. È una protesta che coinvolge liberali, marxisti, kemalisti ed ecologisti ed almeno per ora non ha né un programma né un leader con cui dialogare. Più che a una «primavera turca», siamo di fronte alla prova che undici anni di governo dell'AKP hanno creato nella società una spaccatura culturale profonda e difficilmente sanabile.

Fino a dieci giorni fa, Erdogan sembrava invincibile. Alle ultime elezioni il suo partito ha conquistato la maggioranza assoluta e il suo progetto di riforma costituzionale che gli avrebbe consentito di governare per altri dieci anni sembrava bene avviato. Ma il vaso del malcontento di chi vedeva minacciata non solo l'eredità kemalista, ma anche le libertà fondamentali si stava gradualmente riempiendo, e piazza Taksim l'ha fatto traboccare. La gente ha tollerato via via lo spietato ridimensionamento delle forze armate (accusate di complotti talvolta immaginari), la sottomissione del potere giudiziario, l'incarcerazione di un numero record di giornalisti e intellettuali, la reintroduzione del velo nelle università e negli uffici pubblici e - ultimamente - piccole ma significative misure vessatorie come il divieto di effusioni nei luoghi pubblici, l'ordine alle hostess degli aerei di astenersi dal trucco e il divieto di vendere alcolici dopo le 22. Quando, contro il parere dei cittadini, le autorità hanno iniziato la demolizione del parco Gezi, e le forze dell'ordine hanno reagito a una dimostrazione in larga misura ordinata e pacifica con gli idranti e i lacrimogeni, tutti questi nodi sono venuti al pettine; e nonostante il momentaneo stop alle ruspe piazza Taksim continua a essere presidiata giorno e notte dai manifestanti e le dimostrazioni si susseguono in tutto il Paese. L'opposizione, all'inizio totalmente assente, ha intanto cominciato a cavalcare la protesta e perfino la politica estera del premier, soprattutto nei confronti della crisi siriana, viene messa in discussione.

Per Erdogan, che aspirava a diventare il punto di riferimento delle primavere arabe, questi avvenimenti sono un duro colpo. Il merito di avere presieduto a un boom economico senza precedenti è stato offuscato, agli occhi della borghesia urbana se non delle masse contadine dell'Anatolia, dalla sua arroganza.

Per ora, il suo potere non corre pericoli, ma la piazza gli ha presentato un cartellino giallo e se non metterà un po' d'acqua nel vino del suo crescente autoritarismo rischia di rovinare il molto di buono che ha fatto. In ogni caso l'obiettivo, ancora perseguito, di un'adesione all'Unione Europea si è allontanato ulteriormente.

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